«Genesis kai phtora, phtora kai genesis», vale a dire genesi e declino, declino e genesi. Si dice che questa sia stata la prima frase incisa su pietra, per opera del filosofo greco Anassimandro. Il suo significato è evidente: la storia vede le civiltà raggiungere l’apogeo e poi la decadenza, e le stesse civiltà rinascere sotto nuove forme. È quanto accadde all’impero romano, crollato sotto l’urto delle invasioni barbariche e poi rinato qualche secolo dopo, sotto Carlo Magno, con un’impronta decisamente cristiana. Storici e filosofi hanno indagato a più riprese questi fenomeni di lunga durata, fornendo analisi e risposte spesso differenti (da Edward Gibbon a Santo Mazzarino, da Arnold Toynbee a Henri-Irenée Marrou), ma un dato li accomuna: il prendere atto della fragilità di tutti gli imperi. Anche il XXI secolo è caratterizzato da queste riflessioni: si pensi alle tesi, espresse alla fine del ’900, che tanto hanno fatto discutere di due politologi americani, quella dello «scontro di civiltà» di Samuel Huntington e quella della «fine della storia» di Francis Fukuyama, entrambe scaturite dopo il crollo del comunismo. Il primo vedeva il profilarsi di un conflitto culturale e religioso fra Occidente e islam, il secondo sanciva la vittoria della Weltanschauung occidentale e il suo inevitabile espandersi in tutto il globo. Tesi, si diceva, profondamente divisive, di volta in volta confermate o messe in crisi dal succedersi degli eventi, che siano stati l’attacco alle Torri Gemelle di New York o le primavere arabe, la progressiva crescita economica della Cina o le vittorie e poi il crollo dell’Isis. Ma certamente è la retorica del declino ad avvincere da alcuni decenni l’Occidente e l’Europa in particolare. E in questa ossessione c’è un punto di riferimento da tutti riconosciuto: il saggio Il tramonto dell’Occidentedi Oswald Spengler, pubblicato esattamente un secolo fa. Scritto negli anni precedenti la prima guerra mondiale ma pubblicato verso la sua fine, nell’estate del 1918, quello di Spengler fu un best seller dell’epoca ed esprimeva un chiaro disprezzo verso la democrazia di Weimar e una nostalgia per il Reich. Fatalmente fu strumentalizzato dal nazismo anche se il suo autore non era simpatizzante del partito di Hitler. All’opera di questo oscuro insegnante di scuola secondaria a Vienna e al suo influsso sulle teorie del declino è dedicato un volume a più voci appena pubblicato dalle edizioni Mimesis ( Il declino dell’Occidente revisited, pagine 226, euro 18) e curato da Carlo Bordoni. Che nella prefazione definisce l’opera di Spengler «un libro maledetto, cui si deve la pessimistica definizione di un mondo in rovina che attende una rinascita vitalistica e, magari, autoritaria ». Frutto di un pensiero reazionario che avrebbe avuto molti epigoni, la teoria di Spengler vedeva nel cesarismo l’unica possibilità per un’Europa afflitta dalla decadenza spirituale di liberarsi dal dominio del denaro. E oggi? Per Bordoni, in un Occidente che vede messe in discussione le sue premesse e le sue conquiste (la democrazia, la libertà, l’uguaglianza, il progresso), la minaccia di una sua prossima fine assume un senso assai diverso da quello preconizzato da Spengler: «L’Occidente è in perenne declino, annunciato più volte con inalterato allarmismo, sempre sul punto di perdere la sua egemonia, la sua efficacia, la sua centralità nel contesto mondiale». Qualche mese fa, recensendo sull’Osservatore Romano un simile volume edito da Mimesis e curato sempre da Bordoni, intitolato Immaginare il futurocon interventi di oltre una ventina di intellettuali, da Marc Augé a Zygmunt Bauman, da Edgar Morin ad Agnes Heller, avevo segnalato il pessimismo davvero radicale che emergeva e soprattutto l’assenza totale di ogni prospettiva religiosa. Mancavano voci chiaramente credenti, come se non esistessero nell’ambito del sacro rilevanti personalità cui rivolgersi. E ricordavo come questa fosse una delle carenze di fondo che spesso dimostra la cosiddetta cultura laica, come riconosceva Giuseppe Pontiggia: mentre gli autori religiosi sono abituati a studiare e approfondire tutti gli ambiti della cultura, i pensatori laici a volte restano chiusi, ignari del patrimonio letterario e teologico della cultura religiosa. In questo nuovo volume le cose sono un po’ diverse, sia perché fra i personaggi invitati a scrivere figurano cattolici come Franco Cardini e Oscar Sanguineti, ma anche per lo sguardo non solo apocalittico che prevale. Proprio lo storico Cardini, ad esempio, preso atto che la cultura e lo stile di vita occidentale sono «il linguaggio globalizzato delle élite dirigenti ed emergenti nell’intero mondo globalizzato», rileva come oggi «l’Occidente non si trova dinanzi civiltà alternative da battere o con le quali dialogare: il suo rischio è semmai l’implosione». Ma più che la fine della civiltà occidentale, lo studioso fiorentino vede all’orizzonte una sua trasformazione, la possibilità di una correzione della sua impronta turbocapitalista in nome del recupero del senso del limite e della cultura del bene comune, «un invito solidarista che ci viene anche dal magistero dell’attuale pontefice». Alle stesse conclusioni giunge un altro storico, Valerio Castronovo, per il quale l’Occidente si trova dinanzi tre sfide: la riduzione e l’invecchiamento della sua popolazione, la dissociazione fra progresso tecnologico e progresso civile e sociale, l’affacciarsi di una cyberdemocrazia che porta con sé rischi di manipolazione. Ma di fronte a questa triplice sfida l’Occidente non è affatto destinato a esserne surclassato. Tutto dipenderà secondo Castronovo dalla sua capacità progettuale, dalla sua creatività, «dalla sua attitudine a sperimentare nuovi modelli a percorsi al fine di ridurre le disuguaglianze sociali e assicurare più lavoro e benessere». «Ma senza rinunciare - specifica alfine lo storico - alla difesa dei nostri valori e abbandonare quindi la causa dei diritti umani e civili». Anche per il sociologo francese Michel Maffesoli la storia dell’Occidente non volge verso il termine, ma subisce un cambiamento profondo. I valori forti espressi nel progetto della modernità - individualismo, razionalismo, produttivismo - sono giunti a saturazione e il mondo postmoderno li ha sostituiti con il tribalismo e il senso di appartenenza alla comunità, con il ritorno di un’attenzione ai valori della sensibilità e con il trionfo dell’estetica rispetto al materialismo. Di tutto questo è segno il riemergere dei legami e dei valori comunitari, l’attenzione per l’ecologia e persino per l’ecosofia, l’entusiasmo per la cura del corpo e il culto della bellezza. Nessuna scomparsa dell’Occidente dunque all’orizzonte, ma la contaminazione dei suoi valori ormai saturi con quelli provenienti dall’Oriente: «Ciò che possiamo definire “orientalizzazione del mondo contemporaneo” non è una conquista dell’Occidente da parte dell’Oriente, sul modello dell’espansione ottocentesca, bensì la metabolizzazione dei valori orientali all’interno di questo Occidente che sta mutando profondamente». Come si intuisce, si tratta di analisi che cercano di andare al fondo della questione e che non sono dominate solo dal pessimismo. Chi sottolinea il rischio del crollo demografico (Gianfranco Bettin Lattes) e chi quello dell’avvento del post-umano (Giuseppe Longo, curiosamente contraddetto da Bordoni nell’epilogo del libro), ma i toni che prevalgono non sono apocalittici. Tranne forse Bauman, che in quello che può essere considerato il suo ultimo scritto denuncia il pericolo di una crisi della democrazia occidentale nel conflitto fra il neoliberismo e il neopopulismo: «Questo è l’Occidente - conclude amaramente - che si trova, come alcuni di noi sospettano con orrore, mentre altri sperano con gioia - in avanzato stato di declino. Così sia. E buon viaggio».
Sulla scia del libro di Spengler del 1918 sul tramonto della nostra civiltà, un saggio a più voci a cura di Bordoni contesta la pessimistica idea di un mondo in rovina
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