Gli applausi di San Siro accompagneranno le sue notti. Per Noor Sabri, 24 anni, portiere della nazionale irachena, potrebbero rivelarsi il balsamo per lenire ferite di una vita sospesa. Una vita dove arde una fiamma appartata e clandestina. Quella di un atleta sciita catapultato, suo malgrado, in una faida con i sunniti che risale a 1.400 anni fa. In Iraq, nonostante gli sciiti siano la maggioranza, il regime è sempre stato nelle mani dei sunniti. La religione islamica è la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma per una notte Noor aveva messo a tacere le armi, trasformandosi nell'idolo di una nazione finalmente unita. È accaduto nel luglio del 2007, quando grazie ai suoi prodigiosi interventi condusse l'Iraq alla storica vittoria nella Coppa d'Asia in Indonesia. Una notte da canone inverso, dove una sfera di cuoio frenò la mattanza fratricida. Per le strade di Baghdad si festeggiava il trionfo mentre gli atleti seguivano i caroselli da un tv al plasma in un hotel di Jakarta. Blindati e distanti dalla polveriera. Noor ha accarezzato un'illusione. Pochi giorni dopo sono arrivate, puntuali, le minacce di morte. «Mentre tutti i miei compagni cercavano un ingaggio all'estero io in Iraq ci sarei rimasto volentieri - racconta il portiere -. Volevo lasciare un segno tangibile. Diventare il simbolo di una ritrovata unità nazionale. Ma ho moglie e tre figli e alla fine mi sono dovuto arrendere...». Noor ha abbandonato l'Al Talaba, una sorta di Real Madrid iracheno, e si è rifugiato in Svezia. A Uppsala, città natale di Ingmar Bergman, ha sostenuto un provino con il modesto Ik Sirius. Purtroppo da Baghdad non è mai arrivato il transfer, «e alla scadenza del visto turistico sono dovuto rientrare in patria, pur tra mille timori». Di fronte alle minacce ha lasciato definitivamente Baghdad, risalendo a nord, fino a Duhok, zona franca controllata dai curdi. «La squadra era modesta, ma con i 2mila dollari al mese di stipendio in Iraq vive nel lusso anche una famiglia numerosa come la mia». A 500 km dalla capitale Sabri credeva di essersi lasciato l'inferno alle spalle, ma i sunniti sono tornati a bussare nuovamente alla sua porta. Minacce, intimidazioni e scritte ingiuriose sui muri di casa. Da qui la decisione di fuggire in Giordania, di notte, come l'ultimo dei clandestini. Lui che con le sue acrobazie aveva scritto le prime e uniche pagine d'oro nella storia dello sport iracheno. Amman è un salvacondotto sunnita fin dai tempi della prima Guerra del Golfo. Vi risiedono circa 100mila profughi. Nella capitale giordana c'è persino la sede della Federcalcio irachena. La nazionale si allena spesso nello stadio King Abdullah e gioca le partite ufficiali sulla rotta Doha-Dubai. «Per mesi la nazionale è stata il mio unico club. Difendo i colori dell'Iraq da esule, senza poter assaporare l'aria di casa, ma a gennaio finalmente qualcosa cambierà», rivela. Noor Sabri lunedì 22 dicembre giocherà a San Siro, sfidando campioni come Messi, Beckham e Ronaldinho, nella partita della pace tra Iraq e All Stars, organizzata per raccogliere fondi a favore degli orfanotrofi di Abidjan, Baghdad, Bogotà. Da Milano volerà direttamente in Egitto per firmare un contratto con la squadra di Ismailia. La sua vita ripartirà dalla città che sorge sulla riva occidentale del Canale di Suez. Dove quasi 150 anni fa tagliarono un istmo e dove Noor, simbolicamente, vuole tagliare col passato.