Il maleducato di una volta - Pixabay
Date a qualcuno del maleducato ma non illudetevi di aver impartito una lezione di buona creanza e aspettatevi se non una pernacchia un’offesa di ritorno, il qualunquista e brutale invito ad andare a quel paese, per usare un eufemismo. Benché l’epiteto dall’aria un po’ desueta non abbia più la forza di disapprovazione di un tempo rispetto a certi comportamenti ritenuti sconvenienti da chi per classe si riteneva beneducato, resta il fatto che i maleducati sono tra noi. Vivi e vegeti, attori di un fenomeno reale fatto di micro-atti quotidiani che s’inseriscono in molte dimensioni della vita di ciascuno, stigmatizzati secondo diversi gradi di gravità ma anche guardati con la simpatia e il compiacimento che si tributano a stravaganti fatti di folclore. Il problema è che proprio in tempi di incertezze e flessibilità è sempre più difficile assegnare significati univoci a maleducazione e al suo alter ego la beneducazione.
Capire per esempio se il maleducato è uno che non è stato educato, che soffre cioè di una mancanza, o uno screanzato che ha ricevuto una cattiva educazione. E ancora, in questo caso, capire se l’esibizione della maleducazione sia un atto volontario, una scelta altra di vita o un comportamento di beata inconsapevolezza. La sensazione è di avventurarsi su un terreno scivoloso e dai confini incerti ma estesi. Lo conferma l’articolata ricerca Sulla maleducazione (Cortina, pagine 190, euro 14 ,00) di Sergio Tramma – professore di Pedagogia generale e Pedagogia sociale e interculturale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca – che il fenomeno indaga in tutta la sua complessità e mutevolezza nella vita individuale e collettiva, osservandone la relatività e le soglie di tolleranza, le ambivalenze e le contraddizioni, sottraendolo alla semplificazione della pura mancanza o insufficiente educazione.
Conferendogli la dignità di essere altro. Spiega Tramma che «il punto di partenza per un tentativo di analisi sensata della maleducazione è la consapevolezza che essa è densa di valori “altri” rispetto all’educazione, non di disvalori, ed è con questa alterità che è necessario confrontarsi, e farlo partendo dalla constatazione che l’educazione è un mero processo che genera apprendimenti riguardanti le diverse dimensioni della vita individuale e collettiva, riconducibili alle categorie del sapere, del saper fare e del saper essere». Sono quegli apprendimenti che hanno a che fare con la storia familiare di provenienza, determinanti sul successo o l’insuccesso nella vita e influenti sui modi di stare nelle relazioni sociali, sulle scelte estetiche, di gusto. La maleducazione, cioè, oltre a tradursi in una serie di comportamenti specifici sgradevoli è soprattutto, come sottolinea il pedagogista, «una concezione del come stare nella vita, se non addirittura uno stile di vita».
Certo è che si tratta di un fenomeno trasversale che attraversa nella normalità e banalità del quotidiano tutte le dimensioni del vivere, generando insofferenza, intolleranza e disgusto. Una costellazione di modi e stili di inciviltà dai confini labili e porosi oltrepassando i quali si può approdare a comportamenti trasgressivi e violenti collocati nell’illegalità. In passato si è cercato attraverso i vari galatei – ma internet ne custodisce una marea traboccanti di moderne banalità – di elencare anche ai più sprovveduti le buone maniere utili alla vita di società. Testimonianze interessanti dell’evoluzione dei costumi e dei mutamenti delle regole del vivere comune.
Spiega Sergio Tramma che la cortesia tradizionale è in crisi dalla seconda metà del Novecento e che «da allora, tanto la beneducazione quanto la maleducazione hanno subito un processo di destrutturazione cui non è seguita una fase di stabilizzazione che abbia trovato forma in una sorta di nuovo galateo sufficientemente condiviso nella sua funzione ideologica di regolatore apparentemente neutro dei comportamenti, e solido e duraturo nel tempo». Attraversate famiglia, scuola e società, percorse le derive della politica dove compostezza e decoro hanno lasciato il campo a sguaiatezze e volgarità che desacralizzano le istituzioni e diventano pubbliche lezioni di male educazione, lo sguardo del pedagogista va oltre l’osservazione dell’esistente, con un richiamo educativo alla necessità di dire e fare. Con dei sì e dei no, avendo chiaro che la beneducazione non si insegna con imposizioni, esortazioni e prediche, ma facendo in modo «che la beneducazione, quella vera, possa essere scelta anche da parte di chi staziona nell’area della maleducazione, e non perché costituisce un dovere, bensì uno dei piaceri possibili delle vite normali».