martedì 13 ottobre 2015
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Anche a numerosi esperti è subito corso il pensiero (è il caso di dirlo) al film Minority Report. O al racconto omonimo di Philip Dick, da cui fu tratta l’opera cinematografica diretta da Steven Spielberg e interpretata da Tom Cruise. Perché lo studio appena pubblicato su Nature Neuroscience da un gruppo di ricercatori americani ha acceso subito fantasie ormai sempre meno futuristiche e immediati interrogativi etici o, meglio, neuroetici, secondo la nuova disciplina che si occupa delle conseguenze delle scoperte sul nostro cervello. Emily Flynn e colleghi, coordinati da Todd Constable, hanno utilizzato gli schemi di connessione fine tra aree cerebrali per tracciare un profilo "unico" di ciascuno dei partecipanti alla ricerca, riuscendo anche a provare una stretta correlazione tra specifici profili e le prestazioni cognitive dei soggetti, misurate con comuni test, tra cui quello di intelligenza. Che cosa significa questo? Che, potenzialmente, sarebbe praticabile mettere nella macchina della risonanza magnetica funzionale (fMRI) un giovane per capire se è più portato per un tipo di studi o per un altro sulla base dell’architettura del suo sistema nervoso. E, su questa linea, anche avere indicazioni sulla propensione alla violenza, non proprio l’anticipazione dell’intenzione di commettere un crimine, come in Minority Report, ma qualcosa di molto simile. Con conseguenze sia positive sia assai problematiche. Niente di tutto questo è davvero vicino, dicono gli autori, con la cautela che è d’obbligo. Ma poi ammettono che la strada è aperta. Lo era già dal punto di vista teorico – non c’è nulla di veramente nuovo nello studio –, ma ora si è tecnicamente riusciti a realizzare una identificazione neuronale dei soggetti, almeno nel breve periodo. Constable, interpellato da una giornalista di Wired, ha infatti scherzato, ma non troppo, affermando che la rivista potrà esaminare con la fMRI le connessioni funzionali di un aspirante reporter e stabilire così se ha la stoffa (cerebrale) del cronista. Le connessioni ci dicono chi siamo Vediamo più nel dettaglio come si è arrivati fin qui. I ricercatori hanno utilizzato le scansioni di 126 giovani che, nell’ambito del "Progetto connettoma umano", sono stati analizzati in due giorni consecutivi, sia in completo riposo sia durante l’esecuzione di alcuni compiti verbali e di memoria. Il primo passo è stato quello di considerare 268 piccole porzioni dell’encefalo (ciascuna composta da milioni di neuroni) e vedere in che modo si collegano l’una con l’altra, ovvero quanto "dialogano". Sulla base di questo indicatore è stato possibile, con l’aiuto di un software, abbinare in modo corretto le "immagini" cerebrali di un soggetto analizzato il primo giorno con quelle dello stesso soggetto analizzato il secondo giorno, scegliendole tra 126 diverse, senza considerare nessun altro elemento che non le stesse scansioni eseguite con la fMRI. In altre parole, è come se avessimo un profilo di attivazione del sistema nervoso secondo connessioni specifiche tra le aree che permette di capire chi è la persona in questione, con un’accuratezza molto alta, che sfiora il 90%. In particolare, sono le zone frontali e parietali dell’encefalo quelle che permettono di meglio discriminare, coerentemente con il fatto che sono queste le aree tipicamente correlate alle funzioni mentali superiori dell’essere umano, compreso il ragionamento astratto. Infatti, nelle zone che sovraintendono alla visione e alle funzioni motorie i circuiti sembrano cablati in modo abbastanza simile tra persone diverse, mentre le maggiori specificità si hanno nelle aree di recente evoluzione filogenetica. Il passo in più è stato quello di abbinare i diversi profili con i risultati dei test di intelligenza svolti dai partecipanti all’esperimento. In questo caso, si è notato che le connessioni delle zone frontali consentono di stabilire una correlazione tra specifici schemi di "dialogo" tra le aree cerebrali e i punteggi ottenuti. Sono i collegamenti più forti all’interno delle aree frontali e parietali e tra di esse quelli che sembrano maggiormente influenzare le prestazioni nei compiti cognitivi.  Cautele e rischi delle nuove conoscenze Ovviamente, le differenze tra cervelli sono con buona probabilità il frutto di una combinazione tra dotazione genetica, istruzione, esperienze di vita e influenze ambientali. E gli schemi di connessione variano di conseguenza nel tempo (non si dimentichi che il confronto tra le scansioni dei soggetti è stato fatto nell’arco di due giorni). Il vantaggio di avere chiari profili identificativi dell’attività cerebrale sta nella possibilità di individualizzare al meglio le cure per la malattie psichiatriche, ma, forse, anche nell’eventualità che si possano valutare i “talenti” o le capacità di qualcuno nel momento specifico dell’esame. Come detto, la plasticità del cervello fa pensare che gli schemi di connettività tra le aree cambino nel tempo per l’effetto di tutti gli stimoli, intesi nel senso più ampio, che una persona riceve. Pur con queste avvertenze, è inutile negare che questi progressi conoscitivi portano con sé anche l’ombra di alcuni rischi. Premesso che fare una risonanza magnetica di questo tipo è possibile oggi soltanto con il consenso e la collaborazione attiva della persona coinvolta, dati così sensibili sulle “predisposizioni” scoperte nel sistema nervoso, una volta acquisiti, espongono al pericolo di utilizzi impropri, di "determinismi" e di una selezione sociale su base. Il primo problema è quella della cosiddetta privacy cerebrale. Se venissero a conoscenza delle assicurazioni, sarebbero un elemento per concedere o meno polizze sulla vita? E i datori di lavoro potrebbero chiedere agli aspiranti a un posto di alta responsabilità di sottoporsi a un esame di questo tipo? Ma gli interrogativi si possono moltiplicare. In attesa di ulteriori avanzamenti scientifici e tecnologici.
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