Mi sento medico e naturalista al tempo stesso: mi interessano in pari misura le malattie e le persone. Sono insieme un clinico e un drammaturgo: sono attratto dall’aspetto romantico non meno che da quello scientifico, e li vedo continuamente entrambi nella condizione umana per eccellenza: la malattia». Così aveva esordito a Firenze nel 1986 Oliver Sacks, il famoso neurologo e scrittore britannico scomparso per un male incurabile il 30 agosto a New York all’età di 82 anni, alla presentazione dell’edizione italiana di uno dei suoi bestseller,
L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Una raccolta di casi clinici e umani straordinaria: pazienti affetti dalla sindrome di Tourette (la malattia dei mille tic), da forme particolari di Parkinson, da grave autismo, da strani disturbi della parola, da peculiari deficit della memoria e da singolari alterazioni della percezione.Per questo era così interessato a raccontare le vicende umane dei malati. Oggi che la medicina narrativa va di moda sembra un fatto scontato, ma quando Sacks, agli inizi degli anni Settanta, iniziò a scrivere rifacendosi alla sua esperienza di medico e di uomo questo denotava un’attenzione alla persona malata più che alla malattia, che non era tipica della medicina di allora. Un modo di agire che gli aveva procurato diffidenza e incomprensione nell’ambiente scientifico: i colleghi lo consideravano più un letterato-narratore che un medico-scienziato e la pubblicazione nel 1970 del suo primo libro,
Emicranie, gli era costata addirittura la perdita del posto di lavoro e un temporaneo esilio professionale. Nato a Londra nel 1933, dopo la laurea in Medicina e la specializzazione in Neurologia, si era trasferito negli Stati Uniti iniziando a lavorare a New York: prima in diverse case di riposo gestite dalle Piccole sorelle dei poveri, poi al Beth Abrham Hospital nel Bronx e infine come consulente al Mount Carmel Hospital. In quest’ultima struttura, tra il 1969 e il 1972, aveva avuto l’opportunità di curare con un nuovo farmaco, la
larodopa, circa 200 malati affetti da un quadro neurologico simile al morbo di Parkinson, conseguenza di una grave epidemia contratta in giovane età, l’encefalite letargica, che tra il 1917 e il 1927 aveva invaso il mondo. I pochi sopravvissuti si trovavano in uno stato di perpetuo torpore, bloccati in strane posizioni, impediti di muoversi e di parlare come dentro un corpo di pietra che racchiudeva le loro esistenze. "Morti viventi" che il nuovo farmaco aveva miracolosamente riportato in vita, sciogliendo dopo decenni le catene neurologiche che tenevano legati i loro corpi e bloccate le loro menti. Da questa straordinaria esperienza medica e umana era nato nel 1973
Risvegli, l’opera che lo aveva reso famoso (dal quale era poi stato tratto anche un film), nel quale racconta le straordinarie storie di una ventina di loro. Nel libro, con acuta capacità introspettiva e con grande abilità narrativa, Sacks riesce a farsi strada all’interno delle esperienze più remore e inaccessibili dei suoi pazienti, ciascuno dei quali appare essere un mondo a parte. Tutte persone unite però da una caratteristica: quella di aver passato la maggior parte della vita in una zona inesplorata e muta dell’esistenza, vicino «al cuore oscuro dell’essere», scriveva, e di essere stati sbalzati dalla «notte encefalica» verso le tribolazioni e le meraviglie del mondo, in una nuova vita insperata e stupefacente. La capacità di stabilire un rapporto empatico col malato e l’abilità di saperlo poi riproporre ai lettori nei suoi scritti gli derivavano dalla particolare esperienza esistenziale, oltre che dalla grande passione per il lavoro. Il legame che sapeva instaurare con i pazienti lo ha aiutato a superare momenti difficili della propria storia. La vita di Sacks è stata eccentrica e drammatica insieme, segnata sia dalla malattia e da esperienze devastanti (da cui erano nati alcuni dei suoi libri, come
Su una gamba sola, sugli effetti della perdita temporanea di un arto dopo un incidente e
Allucinazioni, sull’uso di allucinogeni) che dalla gioia di vivere (come testimonia il suo
Elogio alla vecchiaia, apparso in occasione degli 80 anni sul
New York Times). Un uomo alla ricerca perenne della capacità di superare i propri limiti, come emerge dalla sua ultima opera autobiografica
On the move ("In movimento"), uscita da poco negli Stati Uniti, che verrà pubblicata in Italia per Adelphi a metà ottobre. Una ricerca, umana e professionale, che emergeva chiaramente ascoltandolo e parlandogli, come mi è capitato in più occasioni, avendo avuto l’opportunità di conoscerlo e di incontrarlo durante le sue frequenti visite in Italia, per l’affinità professionale - neurologo lui, neurochirurgo io - e il comune interesse per la scrittura. «Si deve trattare la patologia, ma si deve anche prestare attenzione all’individuo nella sua globalità e ai suoi bisogni. Questo non è solo un principio etico, ma anche scientifico. La fisiologia, la medicina e anche le stesse neuroscienze hanno bisogno del concetto di individuo». Così nel 1990 aveva sottolineato la necessità di una medicina centrata sulla persona in occasione di una lezione magistrale su "Neurologia e anima" tenuta all’università di Padova. «Con l’esperienza, l’educazione, l’arte e la vita – aveva concluso – noi insegniamo ai nostri cervelli a diventare unici e impariamo a essere degli individui. Questo apprendimento è sia neurologico che spirituale. Io considero unite la neurologia e l’anima, in modo che ciò renda dignitosa la neurologia e non indegna l’anima». Come testimonia il suo ultimo tweet del 23 agosto: un video di un
flashmob animato dell’Inno alla gioia di Beethoven. «Un modo bellissimo di suonare uno dei grandi tesori musicali del mondo», aveva commentato: il commiato commovente di un medico e di un uomo che aveva trovato nella musica (
Musicofilia del 2007 è stato un altro dei suoi successi editoriali) il mezzo per aprire l’animo dei suoi malati e allietarne la vita. Se ne va con lui un modo irripetibile e unico di scoprire i complessi meccanismi del cervello e di sondare le infinite fluttuazioni della mente.