venerdì 17 aprile 2009
È stato uno dei luoghi di ritrovo che hanno dato colore alla provincia italiana e offerto agli scrittori l’atmosfera giusta per stimolare la loro creatività Dal Florian al Greco, l’identità del Belpaese in un mito che segna la nostra narrativa
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Sappiamo già che il caffè, luogo di incontro e aggregazione in grado di dare impulso alla vita sociale degli Italiani, ha avuto un ruolo di rilievo nella nostra letteratura. Non possiamo certo dimenticare un periodico che ha fatto la storia delle patrie lettere, « Il Caffè » appunto, e testi letterari come La bottega del caffè di Goldoni, che ha rappresentato magistralmente un’epoca di cambiamenti sociali e fermenti politici. Per non parlare di storici, eleganti caffè che sono diventati protagonisti di poesie e pagine di prosa celebri, come il Florian, lo Specchi, il Greco, gioielli ancora splendenti di magnifiche città. Ma questo luogo anomalo e creativo non ha solo contribuito alla diffusione delle idee e di un’attiva vita sociale, ma anche, scopriamo, ha catalizzato intorno a sé l’energia narrativa di alcuni autori. Stefano Giannini, docente di italiano alla Syracuse University dello stato di New York, ci fa entrare nel mondo di due autori memorabili ma oggi un po’ dimenticati, Piero Chiara e Lucio Mastronardi, passando proprio per la porta del caffè, che nei libri di entrambi, pur così diversi, ha assunto un ruolo indispensabile: con La musa sotto i portici. Caffè e provincia nella narrativa di Piero Chiara e Lucio Mastronardi ( Mauro Pagliai Editore, pagine 236, euro 18,00). Piero Chiara, curiosamente, esordisce come narratore proprio su una rivista intitolata «Il Caffè» , nel 1958, e ottiene subito il consenso che lo accompagnerà per tutta la sua carriera. E non è una questione di caso, ma di destino: nella sua vita di scrittore il caffè non è solo un luogo di svago, ma occasione di apprendimento, vera e propria scuola di vita. Infatti racconta che ha imparato moltissimo, da ragazzo, ascoltando le storie raccontate al bar dai luinesi, come lui italiani di confine con la propensione al viaggio e all’avventura in paesi lontani. Questo aspetto di scuola di vita del caffè ritorna in tutti i suoi romanzi, che hanno sempre un’impronta autobiografica e qualche legame con il racconto orale, e accanto ne rivela anche un altro: quello di « palestra retorica » , luogo in cui qualunque avventore, anche umile e privo di istruzione, può duellare ad armi pari e addirittura vincere con chi intavola un argomento di discussione. Tutta la vita di provincia ruota intorno a questi caffè di Luino, e la pagina del narratore « trova energia quando incontra quegli ambienti » , da Il piatto piange fino a Vedrò Singapore?, come se ritrovasse la sua più autentica natura di fabulatore. Anche per Lucio Mastronardi, lo scrittore che ha ambientato quasi tutti i suoi romanzi e racconti in un altro centro di provincia, Vigevano, il caffè è il centro propulsore della vita sociale e della possibilità stessa di raccontare storie. Le vicende dell’ « umanità minore » della cittadina si generano proprio nel caffè, e anche nel suo caso la coincidenza fra letteratura e vita è totale: quando nel 1962 esce il suo romanzo più famoso, Il maestro di Vigevano, c’è qualche giornalista che aspetta lo scrittore seduto ai tavolini del Bar Principe, nella Piazza Ducale piena di portici ospitali, dove era quasi impossibile non incontrarlo. Nei protagonisti di Mastronardi, nel maestro Mombelli in particolare, si trova l’evoluzione del personaggio del flaneur, il perditempo che ama le passeggiate senza fine, e che trova proprio nel caffè il suo rifugio, il luogo che « garantisce la rispettabilità della persona » , salvandola almeno temporaneamente dalla disperazione.
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