John Stockton (Utah Jazz), miglior assistman di tutti i tempi del campionato americano - undefined
Provate a cercarli nell’albo d’oro, non li troverete. Non ci sono perché non hanno vinto nessun campionato. Sono arrivati a un passo dalla gloria, hanno giocato magari finali incredibili però poi il titolo è andato ai loro avversari. Eppure c’è sempre da imparare dallo sport, anche e soprattutto dalle sconfitte più cocenti. Vincere è importante ma non è tutto. Se parliamo di basket a stelle e strisce i grandi sconfitti sono stati spesso uomini virtuosi anche fuori dal parquet. Impavidi e mai domi pure davanti ai “fallimenti”. Come nella vita, dopo ogni caduta ci si rialza, a testa alta, dando sempre il meglio di sé. Per questo alla maniera degli eroi omerici sono usciti di scena lasciando un alone leggendario sebbene poi siano stati spesso dimenticati. È arrivato allora il tempo di render loro giustizia prendendo spunto da un libro che sembra a prima vista celebrare solo i vincitori: Le grandi squadre che hanno fatto la storia dell’Nba. Dai Chicago Bulls degli anni Novanta ai Golden State Warriors di oggi: le più leggendarie dinastie della pallacanestro americana, (Newton Compton Editori, pagine 288, euro 14,90) firmato da The Uncle Crew, una squadra di irriducibili appassionati della palla a spicchi americana. Basta riavvolgere il nastro della pallacanestro per imbattersi in squadre e giocatori che non sono riusciti a mettere nessun anello in bacheca e tuttavia hanno rivoluzionato questo gioco.
Le otto finali perse di Elgin e la strana cometa di Allen
Al primo posto di questa speciale classifica al contrario, c’è senz’altro Elgin Baylor (1934-2021). La sua storia ci riporta alle origini di una delle franchigie più gloriose, i Lakers. Baylor vi approdò quando la squadra giocava ancora a Minneapolis, una vasta area metropolitana con decine di specchi lacustri (“ lakers” appunto, da qui il nome). La sfortuna del povero Elgin fu quella di arrivare al termine del ciclo vincente della prima star Nba, il dominatore con gli occhiali, George Mikan. Il passaggio a Los Angeles si rivelò all’inizio avaro di successi nonostante il talento di Baylor brillasse come non mai: è ancora suo il primato di 61 punti messo a segno in una singola partita delle Finals nel 1962. Un giocatore leggendario che viene però ricordato per il record di 8 finali perse. Un titolo sempre sfuggito di mano pur avendo al fianco campioni come Jerry West (la cui silhouette campeggia oggi nel logo Nba) o Wilt Chamberlain. L’ulteriore beffa arrivò all’ultimo anno della sua carriera nel 1972: Baylor decise di ritirarsi a metà stagione con una gamba ancora ingessata. I Lakers però arrivarono fino in fondo, vincendo il titolo dopo 18 anni. La squadra allora fece preparare un anello celebrativo anche per lui: lo accettò con grande emozione, ma non lo ha mai considerato come suo. Dall’età dei pionieri ai giorni nostri, la lista dei rimpianti è lunga. Certo, in anni recenti ha sfiorato l’apoteosi Allen Iverson, uno dei giocatori più iconici della Nba, un funambolo che ha incantato gli States tra gli anni Novanta e Duemila. Con appena 183 centimetri si è imposto tra i giganti trascinando Philadelphia alle Finals del 2001, arrendendosi solo ai Lakers di Kobe e Shaq. Tra i più grandi realizzatori di ogni epoca, è passato come un fenomeno incompiuto per i suoi limiti caratteriali, ma sulla sua carriera pesa un’infanzia difficile senza padre.
Gli eterni secondi: Pat Ewing e Charles Barkley
Parabole clamorose sono anche quelle di due compagni di squadra nel Dream Team statunitense di Barcellona 1992 (entrambi protagonisti anche del film cult Space Jam ). Uno è senz’altro Patrick Ewing, totem leggendario dei New York Knicks che ha mancato due volte l’anello. Anche se il rammarico più grande è soprattutto per la finale del 1994 persa dopo sette partite contro gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon. Più netta fu invece la sconfitta nella finale del 1999 contro San Antonio. Ewing, centro tra i più dominanti di sempre, eterno secondo come un’altra icona di quegli anni: Charles Barkley. Arriva ai 76ers campioni in carica nel 1984 e Philadelphia non vince più. Finisce a Phoenix, nel 1993 vince il titolo di Mvp, i Suns sono i favoriti al titolo, ma Sir Charles deve inchinarsi ai Bulls di Michael Jordan. Sembra davvero un destino cinico e beffardo quello di Phoenix: la franchigia più vincente di sempre senza aver mai vinto un titolo. I Suns persero perfino il lancio di moneta al draft del 1969 quando furono i Bucks ad accaparrarsi un certo Kareem Abdul-Jabbar. Eppure dall’Arizona sono passati comunque fior di campioni che hanno lasciato un segno indelebile nella storia di questo sport.
Gli assist felici di Steve e il favoloso duetto Jazz
La scia più luminosa nei cieli di Phoenix rimane quella di Steve Nash, trascinatore dei Suns di Mike D’Antoni nei primi anni Duemila. Due volte miglior giocatore della Nba, leader di una delle squadre più entusiasmanti di tutti i tempi dal gioco offensivo e veloce. Anche se quei Suns non sono mai riusciti ad approdare alla finale, Steve non ha rimpianti, contento di aver sciorinato per tutta la carriera copiosi e meravigliosi assist: «Per me è normale, forse per il piacere di rendere felici le persone intorno a me». Se però c’è una squadra che ha toccato il cielo con un dito senza mai conquistarlo è senz’altro quella degli Utah Jazz anni Novanta. Un’epopea che porta la firma di una coppia leggendaria : John Stockton e Karl Malone, detto “il Postino” perché recapitava puntualmente a destinazione punti su punti risultando ancora oggi il terzo marcatore della Nba (dopo LeBron James e Jabbar). Un binomio inossidabile al punto da divenire quasi un’unica parola: Stockton to Malone. La loro unica sventura fu quella di trovarsi per due volte sulla strada dei Bulls di Jordan che li sconfisse in due finali storiche nel 1997 e nel 1998. Ciò però non toglie nulla al bagliore di quei Jazz: Malone il braccio, Stockton la mente, un vero genio degli assist (15806 in tutto che ne fanno tuttora il primatista assoluto) ma anche recordman delle palle recuperate. A testimonianza della fantasia e della dedizione di un leader silenzioso che faceva parlare le sue mani fatate. Un campione di modestia anche fuori dal campo, marito e papà felice di sei figli. La famiglia e la fede cattolica sono la forza segreta di un uomo che si è sempre sentito “benedetto”. Ha scritto nella sua biografia: «Come ha fatto questa vita meravigliosa a trovarmi? ». Grato di esistere, così come oggi noi ci sentiamo riconoscenti per il talento suo e di tutti quelli che hanno accarezzato un sogno. Sconfitti sì, perdenti mai.