LeBron James, 32 anni, in un incontro di preseason tra i suoi Cleveland Cavaliers e i Chicago Bulls
La magia è quella di sempre, perché come direbbe il leggendario Bill Russell, «il basket è l’unico sport che tende al cielo, una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre a terra». Eppure la Nba, il campionato più bello del mondo, che riparte martedì notte farà un ulteriore passo in avanti verso lo show business. L’industria dello spettacolo investirà quest’anno persino le canotte dei giocatori che per la prima volta nella storia potranno essere griffate da uno sponsor. Un quadratino (per ora) di pochi centimetri ma tanto basta per generare un’altra pioggia di denaro (metà alla singola franchigia e metà all’intero movimento che dovrebbe poi ridistribuirlo in parti uguali tra le 30 squadre). Almeno 100 milioni di dollari gli incassi annui previsti per una Lega dalle uova d’oro che genera oggi un movimento d’affari vicino ai 7 miliardi. L’obiettivo nemmeno troppo nascosto è quello di battere il record di incassi del football americano che ne fattura 12 e diventare il torneo sportivo più ricco del mondo.
Un’ambizione rinfrancata dall’ultimo contratto faraonico strappato per i diritti televisivi (circa 2,7 miliardi a stagione) per un campionato mai così seguito anche in Asia (solo a Pechino l’audience on line media delle partite della scorsa stagione è stata di 30 milioni di utenti, il 30 per cento in più dell’anno prima). La Nba è oggi un mercato dove il valore delle squadre negli ultimi vent’anni è diventato dieci volte più grande: il magnate texano di origini italiane, Tilman Fertitta, ha da poco sborsato senza esitazione 2,2 miliardi per diventare proprietario degli Houston Rockets. Questo è ormai un torneo in cui lo stipendio medio di un giocatore si aggira sui dieci milioni l’anno, dove anche il nostro Danilo Gallinari (Los Angeles Clippers) con 21 milioni l’anno è diventato lo sportivo d’Italia più pagato. Per non parlare dei big. LeBron James dei Cleveland Cavaliers, prende 31 milioni l’anno ma con le sponsorizzazioni ne intasca 100; Steph Curry, campione in carica con i suoi Golden State Warriors a luglio è passato dall’essere l’82° giocatore più pagato della Lega al record di quasi 40 milioni di media a stagione. Ma il nuovo “Paperone” della storia della Nba è appena diventato Russell Westbrook, fuoriclasse degli Oklahoma City Thunder, con un rinnovo stellare da 233 milioni di dollari fino al 2023.
Cifre da capogiro in linea col divismo esasperato di cui godono gli eroi dei parquet statunitensi, star riconosciute ormai anche fuori dal campo. Basta vedere la grande influenza che ha avuto nelle polemiche anti-Trump la strana coppia, per una volta insieme Curry-James. Saranno ancora loro due, con i rispettivi team, a giocarsi il titolo. Le loro gesta ci terranno incollati alla tv come hanno fatto i grandi del passato: uno di essi, a 54 anni, ha appena messo a segno una “tripla” controcorrente in questo mondo così dorato. È l’indimenticato Michael Jordan, attualmente proprietario degli Hornets, che ha deciso di donare 7 milioni di dollari alla comunità di Charlotte per la costruzione di due cliniche specializzate in favore dei bambini e dei poveri. La più alta donazione personale mai fatta da una star della Nba, un fenomeno di questo sport, vincitore di 6 titoli Nba con i suoi Bulls e detentore di record scolpiti nel ricordo di tutti gli appassionati. Altri tempi. Adesso il basket statunitense è molto cambiato. Domina il culto dei singoli super- atleti, lo strapotere dei muscoli di “The King” LeBron James o le prodezze balistiche di Curry che sta “ridicolizzando” la linea dei 3 punti visto che segna anche da fuori campo. Uno spettacolo per gli occhi, senza dubbio.
Ma per apprezzare meglio il gioco di squadra bisogna far riferimento a un basket più “umano”, meno fisico, e fino a qualche anno fa ancora estraneo da logiche e interessi extrasportivi: quello dei college. Oggi un’inchiesta dell’Fbi sta accertando frode e corruzione nel reclutare i giocatori in un mondo universitario che per tanti anni è stato esemplare ed è stato la culla di questo sport. Ne è trascorso di tempo da quando, nell’aula magna dello Springfield College, un professore di storia, James Naismith, alzò la prima palla a due tra due ceste di frutta, i primi rudimentali canestri. Se la pallacanestro è diventato uno sport planetario lo si deve proprio al ruolo degli atenei, che oggi sono ancora serbatoio prezioso per l’Nba. Non è un caso che molte di queste università sono storicamente legate ad organizzazioni educative e religiose, come l’Ymca, o che i college cattolici abbiano tutti una grande tradizione cestistica (come il Gonzaga finalista l’anno scorso nella Ncca). Il basket è stato almeno all’inizio lo strumento per formare grandi uomini prima che campioni.
Perché i valori fanno la differenza anche per imporsi ad alti livelli e non hanno prezzo. Lo sa bene pure Steph Curry, oggi milionario, che non dimentica la lunga strada per arrivare al successo, tra sacrifici e infortuni. Lui, il suo segreto l’ha inciso sulle scarpe: «Tutto posso in Colui che mi dà la forza». È il suo versetto biblico preferito, tratto dalla lettera ai Filippesi di san Paolo. Una fede cristiana che condivide con altri compagni di squadra, al punto che come ha svelato di recente a tenerli uniti è una chat di gruppo in cui ogni giorno condividono passi delle Scritture. Per Curry una priorità che non può essere barattata. Non a caso ha messo in guardia anche il suo partner commerciale: «Se le loro intenzioni e i loro atteggiamenti non dovessero più coincidere con i miei salterei giù dal treno. La mia fede e le mie convinzioni sono sempre state alla base della mia vita. E non c’è somma di denaro che può competere con quelli che sono i miei valori».