«Ho sempre sostituito la paura di non farcela più con la speranza di farcela di nuovo».Questa frase di Giorgio Faletti campeggia sulla prima pagina del suo sito internet. Ora che lui è morto a 63 anni.(era nato il 25 novembre 1950) ha un suono strano. Sembra beffarda, perfino cattiva. Invece, superato il primo momento di sbandamento, ti accorgi che è perfetta.
Perché Giorgio era esattamente così. Uno che aveva e ha avuto paura, ma anche uno che andava sempre avanti, che sperava sempre.
Uno tosto, simpatico e testardo.
Uno che ha vissuto almeno cinque vite. Scrittore, cantante, autore di canzoni, attore cabarettista.
Giorgio Faletti ha avuto tante vite artistiche, tutte di successo. Pensare che uno che ha accompagnato buona parte della tua crescita non ci sia più, fa ancora più effetto del solito.
Alzi la mano chi non ha sorriso almeno una volta con uno dei suoi numeri a Drive In. Con le sue gag. Con i suoi Vito Catozzo, Carlino, Suor Daliso, il testimone di Bagnacavallo o lo stilista Franco Tamburini.
Doveva fare l’avvocato, Giorgio. Ma fu uno dei tanti che lasciò tutto per amore del teatro, del cabaret. Negli anni Settanta approdò al locale Derby di Milano, dove c’erano Teo Teocoli, Diego Abatantuono, Boldi, Paolo Rossi, Francesco Salvi.
Arrivò al grande pubblico tv con Pronto Raffaella della Carrà, dopo anni nelle tv locali. Il vero lancio fu con Drive In. E furono anni di cabaret tv e di successo.
Giorgio aveva una marcia in più rispetto a tanti colleghi. Era più colto. Più curioso. Fosse stato per lui avrebbe vissuto nove vite. Ma anche con una sola a disposizione saltò da un genere all’altro, tentando strade molto diverse.
Quando nel 1988 pubblicò il suo primo lavoro da cantante (il mini-album Colletti bianchi, colonna sonora del telefilm omonimo) molti non lo presero sul serio. Per tutta risposta, nel 1991, incise Disperato ma non serio. Una sua canzone fu interpretata da Mina. E da allora il mondo della musica lo guardò con più rispetto.
Nel 1992 Faletti si gioco la carta più importante per un cantante, il Festival di Sanremo. In coppia con Orietta Berti interpretò Rumba di Tango. A quelli che gli dicevano che doveva tornare a fare il cabarettista rispose col titolo del suo terzo album, Condannato a ridere.Giorgio Faletti non era solo intelligente e dotato, era anche una testa dura. Uno che si buttava a capofitto nelle cose.
Quando nel 1994 salì sul palco di Sanremo lasciò tutti di stucco. La sua canzone Signor tenente, ispirata alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, vinse il premio della critica e si piazzò seconda al Festival. Meritava di vincere.
Fu la svolta. Tutti si accorsero che Faletti non faceva solo ridere ma era un artista di valore a tutto tondo.
Uno da prendere maledettamente sul serio.
La sua risposta a questa nuova ondata di entusiasmo, arrivò l’anno dopo, sempre a Sanremo con la quasi preghiera L’assurdo mestiere, malinconica quanto profonda.
Per Angelo Branduardi scrisse un intero album, per molti altri colleghi manciate di canzoni.Anche la musica cominciò a stare stretta a Faletti.
Così, nel 2002 Giorgio sorprese di nuovo tutti pubblicando il suo primo thriller, Io uccido. Vendette oltre 4 milioni di copie. Alla fine dello stesso anno, venne colpito da un ictus che però riuscì a superare.
Da allora ad oggi, ha scritto tanti altri libri (tutti di buon successo), partecipato a film e serie tv. Ma soprattutto ha dimostrato al mondo quante vite, quanti personaggi e quanti talenti fossero racchiusi in lui.Poi, una mattina la scoperta della malattia. Di quelle che una volta si definivano «un brutto male».Dopo mesi di sofferenza, stamattina l’epilogo.
Sul suo sito, qualche giorno fa aveva scritto: “Cari amici, purtroppo a volte l’età, portatrice di acciacchi, è nemica della gioia. Ho dovuto a malincuore rinunciare alla pur breve tournée per motivi di salute legati principalmente alle condizioni precarie della mia schiena, che mi impedisce di sostenere la durata dello spettacolo».
Era una piccola bugia, il male di schiena. Purtroppo c’era molto di più. I più attenti l'avevano capito dal suo ultimo post su Twitter e Facebook: “A volte immaginare la verità è molto peggio che sapere una brutta verità. La certezza può essere dolore. L’incertezza è pura agonia”.