«Le mie cose sono fuori dal comprensorio. Ma finché avrò forza voglio darmi agli altri: e con la musica stare dalla parte di chi fatica. La mia doveva essere la piccola vita di un chirurgo, ma alla fine non so fare a meno della musica. Forse c’è bisogno, di chi saltimbanco vive e saltimbanco muore».
Ora che Enzo Jannacci se n’è andato dopo una lunga malattia, ieri a tarda sera a 77 anni in una clinica milanese, a chi ha avuto la fortuna di incontrarlo più volte il ricordo di queste parole fa male. Ma è un bel ritratto d’artista… a due lati, diceva il Dottore di sé. Lato A, «l’iperbolico» che scriveva Il cane con i capelli del provino Rai 1961, fotografia già allora dell’emarginazione, che all’epoca gli valse un «non idoneo all’arte». Lato B, «l’angosciato». Quello che parlava della fatica del vivere con pietas. Dal barbone di El portava i scarp del tennis, buon uomo che muore nell’indifferenza, sino al Soldato Nencini «schedato terrone: che ero io». Poi c’erano anche robe come L’Armando: «Né ironica né tragica, tutt’e due. Ma anche questo sono io: le canzoni, pezzi della mia vita».
Nato a Milano nel giugno 1935, Enzo Jannacci non ha avuto un’infanzia facile. Però nelle difficoltà imparò. «Il mio lato comico viene dalle fatiche di mio padre. L’altro da mia mamma che mi diceva sotto le bombe "Enzo, la morte è nella vita". Mi hanno dato i pilastri morali su cui fondare quello che ho scritto». Jannacci diventò artista fra Derby, jazz e Fo, incidendo perle in milanese e sfondando davvero con Vengo anch’io, no tu no – sferzante più di quanto si colse – nel ’68. Era soprattutto il suo lato «iperbolico».
Poi la Rai gli vietò Ho visto un re e lui si dedicò alla medicina, era già laureato ma prese specializzazioni fra medicina d’emergenza e cardiochirurgia. Nel tempo ha fatto anche tantissimo volontariato, specie per gli extracomunitari (la cui situazione cantò in più brani).
Però la musica non gli dava scampo e dal 1975 iniziò a riemergere. Partendo da Vincenzina e la fabbrica. Era, Jannacci, un grande della canzone d’autore, capace spesso di farne poesia. Lo dimostrò in Lp storici (Quelli che…, Foto Ricordo, Guarda la fotografia, Discogreve…).
E ad un certo punto Jannacci osò fare il cane sciolto, o forse l’artista vero, pure a Sanremo. Nel 1989 cantando contro la droga, nel 1991 contro la mafia. Se me lo dicevi prima: e qualcuno solo allora lo scoprì, l’uomo dal cuore grande che stava dietro l’artista folle. La sua disponibilità assoluta coi disabili e i malati psichici, le lezioni ai giovani, l’aiuto ai talenti (Cochi e Renato, Paolo Rossi…). E il mettere in pratica il grido di Sanremo: «Mi si rivolsero diversi che volevano uscire dalla droga. Ne ho tirati fuori 70». Intanto, però, per 7 anni i discografici gli avevano rifiutato dischi su dischi.
La rentrée era stata nel 2001, Come gli aeroplani, uno Jannacci alto e struggente come mai, finanche feroce nel suo grido contro una società imbarbarita da giochi di potere e potere del mercato. Bis maiuscolo nel 2003, L’uomo a metà (che poi era lui, medico e «saltimbanco», artista e uomo), storie minime miste a Israele, Palestina, guerre e politica. E ancora, l’ultimo, maturo, ritorno alla poesia degli esordi, Milano 3.6.2005. Tutto incoraggiato e guidato dal figlio Paolo, in anni tormentati oltre misura anche dall’etichetta per cui doveva per forza fare «il matto».
Mentre era un poeta, Enzo Jannacci, uno che scriveva dell’uomo perché sapeva far coincidere la vita con la musica, ed osava nella musica metterci la vita: Natalia e l’ospedale, Tangentopoli, i giovani da aiutare, i valori del padre e di una fede mai gridata, ma sempre pudicamente tenuta presente. Anche nel continuo cantare gli emarginati, o nell’auspicare che vincesse l’altruismo. «È la lezione più grande di mio padre: se non ci fosse l’egoismo, saremmo tutti angeli. E insegnanti di angeli».
Enzo Jannacci, senz’altro tra i più grandi, un giorno ci disse: «Sa, Pedrinelli, con la coscienza non si traffica. Mai». Le sue canzoni resteranno come l’arte vera degli uomini perbene, quando due occhi buoni contano di più del successo e del denaro. L’ha cantato, l’ha vissuto, rimarrà; non è stata «roba minima». Il «saltimbanco» Enzo Jannacci oggi è partito lasciandoci con un appiglio in meno per provare a capire, con pudore, il ritmo dolceamaro di questa vita.