È stata ottima l’idea dell’editore Rrose Sélavy di celebrare il trentennale della morte di Elsa Morante, che cade il 25 novembre, con un delizioso e delicatissimo racconto di Sandra Petrignani,
Elsina e il grande segreto (con belle illustrazioni di Gianni De Conno e introduzione di Franco Lorenzoni): la Morante non per caso autrice precoce di filastrocche e favole e in seguito d’un libro cruciale, intitolato significativamente
Il mondo salvato dai ragazzini (1968). Ma dicevo di Elsina, così come la Petrignani ce la restituisce: la bambina «così sensibile (…) sempre un po’ arrabbiata », anche «un po’cattivella»; il suo desiderio di bambole; e quel segreto grande di avere due padri, uno naturale e l’altro che le ha dato il cognome. Credo che si debba partire da qui, infatti, per provare a ricostruire la vicenda umana, così intrecciata a quella letteraria, d’una delle scrittrici più grandi e misteriose del nostro Novecento, capace d’incantare col suo primo romanzo,
Menzogna e sortilegio (1948), l’allora più famoso critico europeo, György Lukács e il numero uno degli italiani, Giacomo Debenedetti. Ha ragione Cesare Garboli quando, nella
Fortuna critica che chiude il II volume delle
Opere (1990) pubblicate nei Meridiani, definisce la Morante come una scrittrice che «letterariamente, non si sa da dove venga». Puntellando l’affermazione con un’altra, a sottolineare cioè la capacità della scrittrice «di apparire diversa a ogni suo appuntamento ». In effetti, al di là d’una certa e riconoscibile drammaturgia del personaggio, che rapporto può intercorrere tra
L’isola d’Arturo (1957), venturoso e mediterraneo romanzo di formazione, incentrato anche sulla decostruzione d’una mitologia della paternità, e
La Storia (1974), che è, per via incredibilmente melodrammatica, l’elaborazione d’un lutto, quello per il romanzo- romanzo di vocazione epica e popolare? E che relazione ci può essere tra il mastodontico
Menzogna e sortilegio, referto d’un Sud aristocratico e spettrale e la devastata e risentita, feroce disperazione di
Aracoeli (1982), ove a imporsi è una dissacrata maternità, forse il suo capolavoro? Per venirne a capo in qualche modo, muoverei da un racconto davvero bello e allucinato, ricavabile dalla raccolta di racconti
Lo scialle andaluso (1963), che riorganizza e amplia una materia risalente in molta parte agli anni ’30, già inclusa nel
Gioco segreto (1941). Mi riferisco a
L’uomo dagli occhiali, ove uno stranissimo e inquietante personaggio, che ha perso la cognizione normale del tempo, aspetta una ragazza all’uscita di scuola, di cui è innamorato pazzo: ma la ragazza, proprio come certe figure femminili pascoliane, è già morta, mentre dialoga con una sua compagna di classe, rivelandole che è stato proprio quell’uomo a ucciderla. Cosa voglio dire con ciò? Che la Morante, scrittrice assolutamente coincidente con se stessa, nel suo magnifico e coltivato anacronismo, non è, a differenza del marito, il grande Alberto Moravia, una scrittrice antiborghese: a essere sotto scacco, infatti, non è il capitalismo, ma la realtà in quanto tale. Il suo sgomento, insomma, è, prima che storico, metafisico. Mettiamola così: qualora si provasse a scrivere una storia letteraria del Novecento dal punto di vista dell’invisibile, la Morante avrebbe un posto di preminenza. Quel Novecento che inizia coi queruli morti di Pascoli, che chiedono ai vivi di essere ascoltati e si chiude coi morti d’un capolavoro assoluto come
Il giorno del giudizio (1977) di Salvatore Satta, che ci implorano di essere liberati persino del peso di essere vissuti. In mezzo c’è la Morante, con la sua inquietante promiscuità tra vivi e morti, laddove la vita, contemplata dal punto di vista della morte, mette capo a un realismo per così dire sciamanico, dentro una specie di biologia visionaria, capace di problema-tizzare, quanto alla fisica e all’antropologia dello stare al mondo, ogni totem e tabù.