Ci sono oggetti e utensili della vita di tutti i giorni che passano inosservati, sono quasi invisibili alla nostra attenzione. Sono scontati nel loro uso quotidiano, al punto da non spingerci mai a pensare che quel piccolo strumento possa essere il frutto di un “ragionamento”, di una “idea” o di un “disegno”. Eppure è così. Dalla penna a sfera alle forbici, dal portacenere al taglierino in plastica, chi pensa mai a cosa c'è dietro? Chi si è soffermato, a parte pochi appassionati e collezionisti, sulle mollette? Sì le mollette da bucato, quelle che permettono di appendere e far asciugare i vestiti dopo averli lavati a mano o in lavatrice. Chi non ha mollette in casa, anche se possiede una potente asciugatrice? In legno o in plastica, monocolore o assortite, solitarie o composte, classiche o dalle forme più strane, ce n'è per tutti i gusti e bucati. Ecco, le mollette sono uno splendido esempio di design “anonimo”. Quello che non rivendica una dichiarata paternità autoriale o un blasone nobilitante per gli oggetti e gli strumenti di uso quotidiano che progetta e realizza. Rientrano in questo filone di ricerca le mostre Super Normale di Jasper Morrison e Naoto Fukasawa, del 2007, e No Name Design di Franco Clivio e Hans Hansen, del 2014. In questa scia si inserisce anche la piccola, ma gustosissima mostra Mollette da bucato proposta dal Triennale Design Museum a Milano (aperta fino al 12 novembre), a cura di Giulio Iacchetti con Paolo Garberoglio ed Elisa Testori, che affronta e approfondisce proprio il design delle mollette, con i suoi infiniti usi: pinzare i sacchetti aperti della pasta o dei biscotti, i fogli sparsi, i pantaloni quando si è in bicicletta. O pinzare – in maniera scherzosa – il naso, come fanno spesso i bambini quando le intercettano!
Quanti modelli di mollette esistono al mondo? Mille? Duemila? Un collezionista australiano vanta una raccolta di 2300 mollette, e questo fa chiaramente presumere che ce ne siano molte di più. «La passione e l'interesse collezionistico per questo piccolo oggetto colpì anche me qualche anno fa – spiega Iacchetti –: in concomitanza con il progetto di una molletta da bucato che realizzai per il marchio Coop, cominciai a raccoglierle acquistandole nei supermercati dei vari paesi del mondo che mi capitava di visitare. Altre, poi, mi sono state donate da amici e l'incontro con Paolo Garberoglio – e con la sua grande collezione – ha favorito il nascere della mostra».
Uno spaccato – per ammissione stessa del curatore – «ben lontano dal restituire agli occhi del visitatore un campione statisticamente credibile di questo strumento». Ogni epoca e civiltà hanno infatti generato diversissime varianti tecnico-formali per l'assolvimento della funzione di “pinzare” indumenti e panni al classico filo del bucato. Ma l'osservazione degli esemplari di mollette esposti restituisce l'idea che, per un unico bisogno, la risposta del progettista nella storia e in diversi luoghi del mondo è ben lungi dal posizionarsi su un fronte standardizzato e uniforme. Si passa dalla “primitiva” molletta in legno e ferro realizzata dagli Shaker americani a metà del 1700 a quella, sempre in legno, inventata da David M. Smith nel 1853, per andare a sviluppi più elaborati non solo nella soluzione morfologica, ma anche in quella funzionale, come la molletta progettata dalla coppia brasiliana Marcela Albuquerque e Taciana Silva espressamente dedicata ai costumi da bagno, o la Flipper progettata da Paolo Garberoglio e Maurizio Carrara che risolve in modo definitivo il problema di mantenere appaiati i calzini sia in fase di lavaggio che di asciugatura. Senza contare quelle dalle forme più divertenti: la molletta giapponese a forma di rana, le arachidi-clip americane o il “bersaglio-papera” made in Uk.
«Nella variegata differenziazione di così tante mollette – conclude Iacchetti – è insito l'anelito a non accontentarsi, ad andare oltre, a esplorare strade diverse, così che l'utopistica affermazione di Enzo Mari “la forma possibile è una sola” resta ancora un obiettivo lontano dal compiersi, e che forse mai si realizzerà».