La scrittrice Sasha Vasilyuk - Christopher Michel
Sentirsi europei è un compito impegnativo, vuol dire fare i conti con l’irrequietezza delle relazioni internazionali ed essere pronti a misurare la propria coscienza davanti agli scenari allestiti dalla storia contemporanea. Inevitabilmente questi scenari hanno radici profonde nel passato e dobbiamo trovare un supporto in letture che allarghino i nostri punti di vista: la letteratura è nata per aprirci nuovi orizzonti. Il romanzo Il vento è un impostore (Garzanti, pagine 382, euro 18,00) di Sasha Vasilyuk aiuta a fare chiarezza sui tormentati rapporti tra russi e ucraini, partendo dalla Seconda guerra mondiale e dai combattimenti tra russi e tedeschi sul territorio ucraino, in parte conquistato dai nazisti. Ecco il punto di partenza delle costanti accuse di nazismo che i russi affibbiano indiscriminatamente agli ucraini: chi si trovava a vivere nel territorio occupato dai tedeschi, perfino i prigionieri di guerra, erano tutti considerati collaborazionisti. Da qui inizia l’odissea del protagonista Yefim, soldato ebreo ucraino, finito prigioniero dei tedeschi e costretto a mentire, al ritorno in patria dopo la guerra, per non essere bollato come un traditore. « È la storia vera di mio nonno – dichiara l’autrice, emigrata da bambina in Usa con i genitori – scoperta per caso da una sua lettera di autodenuncia al Kgb, mai spedita e ritrovata dopo la sua morte, nel 2007. Ero ancora troppo giovane per mettermi a scrivere allora, ma ho covato questa storia dentro di me e quando la Russia, nel 2014, ha occupato la Crimea, dove ho passato un bellissimo periodo da bambina, ho iniziato a documentarmi per far luce su tutte le vicende dei miei nonni. Nel 2016 da San Francisco, dove vivo, sono andata in Donbass, a Doneck, dove ancora viveva la mia nonna novantenne, e sono rimasta scioccata: ben poco rimaneva del villaggio dove avevo passato estati felici dai nonni. Eravamo andati per persuaderla ad emigrare, ma non ne ha voluto sapere, dicendo che era troppo vecchia e malandata. In effetti è morta poco dopo, ora non è rimasto nessuno della mia famiglia laggiù».
Quell’ultimo viaggio ha dato il via al romanzo?
«Sì, mi sono sentita pronta per far conoscere questa storia, le cui conseguenze sono purtroppo terribilmente attuali. Ho iniziato nel 2017, quando ero incinta del mio primo figlio, sentivo che la mia vita entrava in una nuova fase e ho voluto raccontare quelle vicende che mi legavano alle mie radici. Sono partita dal passato, dalle tragiche esperienze di mio nonno che ha dovuto mentire tutta la vita fingendosi un veterano di guerra perché se avesse ammesso di essere stato prigioniero dei tedeschi sarebbe stato inquisito e trattato da reietto. Solo quando si sentì prossimo alla morte volle liberarsi la coscienza e scrisse al Kgb tutta la verità, ma ebbe un ictus che gli impedì d’inoltrare la lettera. Ho dovuto fare molte ricerche per far luce sui punti oscuri non rivelati, ad esempio: come fece a nascondere ai nazisti di essere ebreo? Nell’armata rossa c’erano mezzo milione di ebrei, duecentomila furono catturati e solo in cinquemila tornarono: dalle memorie di alcuni di loro ho ricostruito come avrebbe potuto fare mio nonno a scampare, ovviamente in questo caso ho romanzato, come in altri punti, per assicurare ai lettori una storia avvincente. Ho concluso l’ultima stesura proprio nel 2022, quando c’è stata l’invasione russa, che ha dato un ulteriore significato al mio romanzo».
La sua scelta narrativa alterna capitoli relativi alla guerra con quelli che via via seguono l’incontro e il matrimonio dei suoi nonni, un legame forte ma segnato dai reciproci segreti: anche sotto questo aspetto prevale il romanzo?
« In letteratura ho sempre amato i matrimoni complicati! Ho ricreato Yefim e Nina come personaggi da romanzo, ma basandomi sui ricordi familiari e sui documenti, non solo la lettera del nonno, ma anche un memoir di mia nonna. Ho messo in evidenza che appartenevano a ceti diversi: lui veniva dalla campagna ed era un soldato, lei era cittadina, aveva studiato. Era archeologa, e si sono conosciuti perché lui le era stato assegnato come aiutante negli scavi». L’intervista con Sasha Vasilyuk, arrivata in Italia per un tour di promozione del libro, si svolge in italiano.
Come mai parla la nostra lingua?
« Ho studiato un po’ d’italiano per caso, a San Francisco, e mi è tanto piaciuto che ho aderito al progetto Erasmus per andare in Italia, ho vissuto a Bologna. Poi ho avuto anche la cittadinanza italiana, perché ho sposato un italoamericano di quarta generazione, lui però lo parla meno di me. La sua famiglia è originaria di un paesino friulano, stiamo per fare un giro in Friuli che ci porterà anche lì».
I suoi nonni abitavano nel Dombass, un territorio etnicamente composito, e nello svolgimento del romanzo appaiono le difficoltà relazionali tra russi e ucraini, lei come le ha vissute?
« Personalmente ero troppo giovane, non me ne accorgevo. Consideravo normale che fosse il russo la mia prima lingua e l’ucraino fosse insegnato come una lingua straniera, infatti non l’ho mai imparato bene. In famiglia solo i nonni parlavano ucraino, e i nostri libri erano tutti in russo. Dopo l’indipendenza però è apparsa una sostanziale differenza fra i due popoli: gli ucraini sentivano di avere il potere di manifestare contro il loro governo e di cambiarlo, mentre i russi non hanno mai percepito questo potere».