Donne arbëreshë danzano in Calabria (CreativeCommons)
Da Pecetto, la più alta tra le nove frazioni di Macugnaga, dove finisce la strada che rimonta l’aspra valle Anzasca, Anne può ammirare ogni volta che ne ha voglia le maestose quattro cime della parete est del Monte Rosa. Da bambina, ricorda, «io e i miei fratelli andavamo a prendere i carichi di legna per l’inverno, perché non avevamo il riscaldamento, e mentre lavoravamo ci richiamavamo da un alpeggio all’altro con lo jutzu, il nostro jodel. Cantavamo sempre, qui si sentivano sempre voci nell’aria».
Quelli che hanno accompagnato l’infanzia di Anne, minuta signora di 91 anni, sono i canti walser, tramandati per generazioni dai discendenti dei coloni svizzeri che, nel XIII secolo, attraverso il passo del Monte Moro raggiunsero queste zone ostili all’uomo dell’attuale Piemonte, chiamati dai monasteri o dai feudatari che chiesero loro di bonificarle.
La lingua walser, nei suo diversi dialetti locali, si è conservata intatta, “ibernata” come in uno dei ghiacciai che dominano il panorama, tanto che gli svizzeri o i tedeschi che passano di qui sono felici di sentire parole che da loro non esistono più da secoli. Il walser è un idioma della memoria, un po’ come, nel cuore della Basilicata, l’arbëreshë, l’albanese portato nel '500 dagli esuli in fuga dalla dominazione ottomana.
O come il tabarchino, che ufficialmente è solo una variante del dialetto genovese, ma ha un’identità assolutamente specifica e stupefacente: a parlarlo, in due isole sarde dell’arcipelago del Sulcis, sono gli eredi dei coloni genovesi giunti da Tabarka, in Tunisia, poco meno di trecento anni fa. Questi migranti avevano vissuto per due secoli nel regno dei Bey tunisini, impiegati dalla "madrepatria" ligure alla pesca del corallo, e lì avevano mantenuto la loro parlata assorbendo però alcune espressioni e molti aspetti della cultura locale, a cominciare dalla gastronomia: il cuscus ( cascà in tabarchino) è oggi un piatto tipico a Calasetta e Carloforte.
Le storie di queste isole linguistiche che resistono, ormai a fatica, in mezzo al mare dell’italiano, così come l’occitano e il grico del Salento, sono raccontate nel libro Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza (Ctrl Books; autori vari, pagine 124, euro 18,00), accompagnate dal suggestivo reportage fotografico di Emanuela Colombo. «La lingua crea un’identità individuale e di gruppo», si legge nella prefazione. «La lingua, al contempo, può essere un elemento di differenza. E di conservazione delle differenze. Un antidoto a quel tipo di potere che, consciamente o inconsciamente, uniforma e appiattisce. Forse chi lavorò intorno alla Carta che avrebbe regolato la vita civile dell’Italia liberata dal fascismo aveva in mente qualcosa di simile: la Costituzione della Repubblica Italiana tutela, con l’articolo 6, le minoranze linguistiche. Nel momento di una nuova unificazione, i padri costituenti decisero di proteggere le differenze».
A 70 anni dall’entrata in vigore dello Costituzione, gli autori del libro compiono così un viaggio narrativo e per immagini, dalla Basilicata alle Alpi, in questa Italia sull’orlo del silenzio. Per scoprire quanto le parole siano inscindibili dalla cultura di una comunità.
A Carloforte i capi delle tonnare, che hanno fatto la fortuna dei tabarchini, si chiamano rais e sono figure quasi mitiche. Ad Alagna Valsesia le case sono costruite con la tecnica del blockbau, a incastro, tipica dei popoli germanici. La cultura ma anche la fede. Nella chiesa di San Costantino il Grande, a San Costantino Albanese, la messa si celebra in rito bizantino e in lingua arbëreshë. A Pomaretto (Lou Poumaré in occitano) all’imbocco della Val Germanasca, la maggioranza degli abitanti segue il culto valdese: questa valle sperimentò la pace, dopo secoli di terrore e persecuzioni, solo nel 1848, quando Carlo Alberto di Savoia riconobbe ai valdesi pieni diritti civili e politici.
Si tratta di identità ancestrali tanto preziose quanto, frequentemente, inconsapevoli. Chi parla una lingua in via di estinzione spesso non si rende nemmeno conto del patrimonio che mastica quotidianamente. Franco Bronzat, linguista nato a Torino da genitori della Val Chisone, se ne accorse casualmente al liceo. Nell’ora di letteratura, la professoressa aveva letto una poesia del grande trovatore provenzale Arnaut Daniel, spiegando che era scritta in occitano, «una lingua morta». Franco alzò la mano: «Sarà morta per lei. Ma a me sembra la stessa roba che parliamo noi a casa».
Una naturalezza che aumenta il rischio di lasciare scivolare via, piano piano, le parole e quello che significano: uno stile di vita, un’identità di singolo e di gruppo. Tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi e a livelli diversi, stanno affrontando la sfida del declino. Gli anziani se ne vanno e si portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo. A meno che non ci sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la collettività alla riscoperta delle proprie radici.
In molti casi sta succedendo. Nello storico centro polifunzionale di Alagna, Davide Filié tiene un corso di titzschu, la versione locale del walser, per i ragazzini del paese. «Una lingua è ancora viva se due bambini, almeno due, la usano per giocare», afferma convinto. E i bimbi sono tornati anche a Ostana, minuscolo borgo occitano della Valle Po dove il regista Giorgio Diritti ha ambientato il film Il vento fa il suo giro. All’inizio del Duemila, quassù vivevano sei persone, oggi i dati della municipalità parlano di 85 abitanti. Si valorizzano le risorse tradizionali unendole ai nuovi modelli di sviluppo sostenibile, si organizzano corsi e seminari e un festival internazionale dedicato alle "scritture in lingua madre".
Similmente, tra gli ulivi della Grecia salentina si comincia a pensare che il recupero della memoria sia anche sinonimo di economia, e i comuni si sono uniti per difendere le loro peculiarità, a cominciare da quella linguistica. «In questi paesi ora non si costruiscono palazzine. La gente è fiera dei propri canti, del proprio cibo. La modernità non è stata rinnegata, ma internet convive con la pizzica».
Certo, qui, come in tutte le altre isole minoritarie d’Italia, il timore è che la cultura locale si trasformi in semplice folklore a uso dei turisti. Un rischio, tuttavia, che vale la pena di correre, se non si vuole scomparire.