Teatro La Fenice di Venezia, una scena del "Rigoletto" di Damiano Michieletto con Luca Salsi - Michele Crosera
Tutta bianca la stanza che ha tutto l’aspetto di uno di quegli stanzoni di quelli che un tempo si chiamavano manicomi. Uno stanzone austero. Un letto da ospedale, bianco con le lenzuola bianche. Le sbarre alle finestre, bianche. Le pareti di mattoni bianchi. Tutto di un bagliore asettico. Lì, rannicchiato a terra c’è un uomo. Solo con i suoi fantasmi. Quelli che gli affollano la mente – li vede lui, li vediamo anche noi. Li vede dal giorno in cui, i piedi immersi nella terra della fossa che ha scavato con le sue mani, ha trovato la figlia morta, avvolta nel sacco nero dentro il quale avrebbe dovuto esserci il cadavere del suo nemico. Aveva assoldato un sicario per ucciderlo perché gli aveva disonorato la figlia. Ma per uno strano gioco del destino il sicario ha ucciso proprio la ragazza. E si sa, il dolore di un genitore che sopravvive ai propri figli è qualcosa di innaturale. Di talmente innaturale che Rigoletto – sì, quello dell’opera di Giuseppe Verdi – impazzisce.Lo vediamo così, rannicchiato a terra, in un’enorme stanza, cullato dal bianco, all’inizio del racconto di un giorno di ordinaria follia che è la regia del capolavoro verdiano immaginata da Damiano Michieletto, in scena ora – ed è la prima volta che lo spettacolo arriva in Italia dopo il debutto ad Amsterdam nel 2017 – al Teatro La Fenice di Venezia (repliche sino al 10 ottobre). Un giorno uguale a tutti gli atri giorni nei quali, nell’idea del regista veneziano, Rigoletto è condannato (perché si è condannato da solo con la vendetta che gli si è rivoltata contro) a rivivere continuamente i fatti che lo hanno portato sull’orlo del baratro, nel tunnel (senza uscita?) della follia. E noi con lui. Perché vediamo la vicenda dal punto di vista del giullare, che è uno straordinario Luca Salsi (sempre – o quasi – in scena), qui alla sua miglior prova di attore di sempre.
Il baritono ci porta nella follia di Rigoletto. Dove oggi è uguale a ieri e domani sarà uguale ad oggi. All’infinito. Perché ogni volta il tema (musicale) della maledizione (che apre e chiude in un cerchio perfetto la partitura che Verdi scrisse proprio per la Fenice nel 1851) evoca un dolore. Evoca una storia. Che sempre ricomincia. Necessariamente e inesorabilmente. Perché ripeterla sembra l’unico modo per provare ad afferrarne (se ci fosse) il senso. Ma questa storia – razionalmente – un senso non ce l’ha. Solo la follia, forse, solo lo sguardo di chi, annebbiato nel qui ed ora, vede oltre il tempo e lo spazio, può provare a scavare dentro i fatti.
Lo fa (con Michieletto) Rigoletto. Nella sua follia. Rivivendo, all’infinito, una storia (drammaticamente attuale visto quello che ogni giorno accade) di violenza, quella di un padre che tiene segregata la propria figlia. Per troppo amore, forse. Ma sempre violenza è. E che, inevitabilmente, si rivolta contro chi la compie. E lo conduce alla follia. Perché Gilda – lo sappiamo dato che Rigoletto è una delle opere più popolari di Verdi – sfugge alle catene del padre, viene sedotta dal Duca di Mantova (che lei crede essere uno studente povero), rapita dai cortigiani, portata a palazzo dove si trova catapultata nelle braccia del Duca. Non solo. Confessa al padre il suo disonore e Rigoletto medita vendetta, assoldando Sparafucile per uccidere il Duca. Gilda lo scopre, ascolta il sicario che promette alla sorella Maddalena (anche lei innamorata del Duca) di uccidere un viandante al posto del nobile e si sacrifica, facendosi pugnalare. Così Rigoletto si ritrova nel sacco il cadavere della figlia. E – ecco la mano registica di Michieletto – impazzisce. Chiuso in manicomio, dove si materializzano i fantasmi che gli affollano la mente – entrano in scena dagli squarci che si aprono nelle pareti della stanza. Dove le sue ossessioni prendono forma, tanto che tutti i cortigiani hanno il volto del Duca, il nemico da annientare. Li vediamo anche noi. Come vediamo un medico che poi prende le sembianze di Sparafucile, un’infermiera che si sovrappone a Giovanna, un Monterone che, lanciando la sua maledizione si mette una gobba e diventa perfettamente speculare a Rigoletto.E vediamo apparire Gilda. Prima una Gilda bambina, senza volto. Inquietante nella maschera neutra che porta sul viso. Incubo che si materializza già all’inizio quando esce da quel sacco nero che Rigoletto vede nei suoi incubi. Gilda ha un vestito giallo con fiori rossi e azzurri. Unica macchia di colore nel bianco della scenografia (bellissima e complessa nella sua apparente semplicità) di Paolo Fantin e nel bianco dei costumi di Agostino Cavalca. Gilda che vediamo ragazza (Claudia Pavone che le da’ voce ha lo stesso abitino) e poi di nuovo bambina, in un continuo sdoppiamento tra scena e video che scorrono sulla parte di fondo, prolungamento della mente di Rigoletto. Colorata, Gilda, come i disegni di lei bambina che ritraggono una madre (che non ha mai conosciuto) senza volto, subito annerita e cancellata dalla memoria con una matita nera. Fanno da sfondo, questi disegni, al «Cortigiani vil razza dannata» che Rigoletto canta solo, chiuso nel suo dolore, chiedendo pietà a chi non può aiutarlo.
Tante suggestioni che Michieletto mette in scena portando fino in fondo la sua idea iniziale. Forte, estrema. Anche discutibile, certo perché spiazza, perché non mette in scena il “solito” Rigoletto. Ma coerente. Sino al tocco poetico (e anche un po’ ruffiano, diciamolo) del finale, capace di strappare la lacrima, quando (in un video in bianco e nero) Gilda morente, esce di casa e correre, attraverso una pineta, verso il mare – immagine che Michieletto ha usato anche nel Rigoletto messo in scena lo scorso anno al Circo Massimo per l’Opera di Roma e che arriverà, nella versione film, alla Festa del cinema della Capitale. E tutto torna in questo giorno di ordinaria follia. Raccontato in musica dal podio – orchestra della Fenice in gran forma, coro puntuale – da Daniele Callegari che sceglie un ritmo serrato e incalzante, che non ti lascia tregua, che non concede nulla al sentimento e incalzante, perfetto per il racconto di Michieletto sulla scena. Dove giganteggia Luca Salsi. Sempre (o quasi) in scena, eroico nel disegnare in una grande prova d’attore un uomo piegato e piagato dalla follia con il suo timbro caldo e avvolgente, con mezze voci, filati sul fiato, rifiniture del canto da brivido. Attorno a lui un cast capace di aderire al disegno registico e alla lettura incalzante dettata dal podio da Callegari. Gilda ha gli accenti dolenti e passionali di Claudia Pavone, il Duca di Mantova la spavalderia (della voce e dell’acuto) di Ivan Ayon Rivas. Mattia Denti prova a dare un colore meno nero a Sparafucile, Valeria Giardiello disegna una corretta Maddalena. Tutti nel tunnel della follia. Noi, a guardarli, affacciati sul baratro di Rigoletto.