La mostra di Matisse al Man di Nuoro - / Alessandro Moni
L’opera di Henri Matisse è stata ampiamente studiata, nei suoi registri stilistici e nella sua identità espressiva, eppure permangono spazi della sua ricerca trascurati o sottovalutati. La scultura del maestro, ad esempio, non è mai stata sufficientemente indagata, non solo riguardo ai suoi caratteri visivi, ma anche relativamente al suo profilo nell’ambito dell’arte plastica del Novecento. Quella di Matisse è stata d’altra parte la testimonianza di una sperimentazione ispirata, caratterizzata dalla reiterazione e semplificazione degli stati della forma, tornando anche a distanza di tempo sugli stessi soggetti, dando l’impressione di rispondere ad una intuizione tutta interna al valore plastico dell’opera e «sviluppando un approccio concettuale che si può definire come un metodo di progressione formale», scrive Sandra Gianfreda nel catalogo della mostra "Metamorfosi" in corso (fino al 12 novembre) al Museo MAN di Nuoro a cura di Chiara Gatti, in cui sono esposte 30 sculture e una ventina tra disegni, incisioni, fotografie d’epoca e pellicole originali.
Matisse, da bergsoniano convinto, investiva pienamente il suo lavoro nell’istante intuitivo ed ogni successiva rielaborazione non era mai reiterazione ma rinnovazione. Il punto è capire perché Matisse tornasse sovente sugli stessi soggetti. È noto che egli facesse porre le sue opere sulle pareti del suo studio, soprattutto negli ultimi anni della sua lunga vita, quando allettato lavorava da coricato. Era come se il già compiuto fosse per il maestro lo stadio di un divenire, l’esito intermedio di una ricerca senza fine. Ricerca solo formale? Certo è che la tensione del suo sguardo volto a catturare quell’assetto che almeno per un poco gli restituisse la pienezza di una estrema sintesi, era tutt’altro che formale. Aveva tutte le caratteristiche di una tensione verso una ulteriorità misteriosa del vedere e del sentire, che profondamente avvertiva nella sua esistenza come segno fondante dell’arte e della vita. Matisse puntava a una sorta di perfezione non di termini visivi, ma di intensità espressiva e di pienezza del vivere. Pienezza che investigava nella realtà e che al tempo stesso trascendeva, come testimoniò nella celebre Cappella di Vence, in cui la luce fisica diventava nel suo progetto d’anima avvertimento di un luce metafisica.
La mostra nuorese, raro equilibrio tra analisi linguistica e narrazione espressiva, illustra gli stati progressivi della forma in relazione al carattere dei soggetti rappresentati e ne documenta con metodo i sottili passaggi espressivi, tesi, sembrerebbe, verso l’astrazione, tuttavia conservando il carattere della figura, anzi vivificandolo all’interno di una fisionomia via via più semplificata, come se l’artista puntasse all’essenza della persona oltreché del linguaggio. D’altra parte, della figura, Matisse non voleva carpire l’anima spirituale, ma quella vitale, con tutta la sua fisica seduzione. Anche per questo la sintesi era per Matisse il frutto di un processo tecnico e spirituale, come è ben leggibile nei papier découpé e nei disegni (alcuni opportunamente in mostra). Interessantissima la successione dei Jeannette I-V. Vi si coglie una variazione non solo figurativa ma di riflessi emotivi, di temperamento espressivo si direbbe, che si accompagna alla sintesi formale. L’ultima Jeannette è ancora la prima, ma è altresì un’altra personalità, un altro profilo. E interessantissimo è altresì Nu appuyè sur le mains, del 1905, per il suo modellato liquido, sensuale. La forma si scioglie, per così dire, e sembra anticipare Bacon. Ma con altro spirito, aperto alla gioia di vivere.