domenica 15 gennaio 2017
Il debutto da autrice nella «meraviglia» di un monologo sulla santa degli impossibili. «La mistica femminile ha una forza magica»
Laura Marinoni in "Rita degli impossibili"

Laura Marinoni in "Rita degli impossibili"

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La immagina mentre Rita si sveglia nel chiostro, non sa più chi sia, come chi si ridesta da un coma, o da un sogno estatico, e comincia a parlare di se stessa bambina. Così lo spettatore ascolta, ex abrupto, l’infanzia di una donna che è in scena, in piedi, al leggio, come cercando se stessa nelle pagine. Ricorda un cane, a cui si era affezionata, e che morì, segnando in lei il dolore bruciante della perdita. E poi le api… «Il cane è un’invenzione mia. Lo immaginavo presenza necessaria accanto a quella bambina nata troppo tardi, da genitori troppo anziani. Le api compaiono nella storia di Santa Rita, mescolata di leggenda come sempre dei santi, per giunta del Medio Evo. Ma compaiono, come piccole manifestazioni di un ordine divino.. Le api compaiono in Sant’Agostino, che è come il nume tutelare di quest’opera…».

Quest’opera è il monologo Rita degli impossibili (in scena allo Spazio Banterle, a Milano fino a domenica), che Laura Marinoni, una grande attrice, una delle presenze più importanti della scena teatrale italiana contemporanea, ha scritto, esordendo come autrice, ispirandosi a Santa Rita, vissuta in Toscana nel tempo di sangue dei Guelfi e Ghibellini. Una vita molto lunga per quei tempi, 76 anni, i primi 36 come donna, moglie e madre, i secondi quaranta come mistica ascetica e visionaria. L’interprete divide la storia in due tempi intensissimi, semplicemente spostandosi da un leggio a un altro, dalla parte opposta del palco. Tutto è nella voce e negli occhi, la cui corrispondenza magnetica anima il movimento, muove la presenza, qui e direi sempre, in questa attrice che fonde in scena, letteralmente, anima e corpo. Cerca da sempre di realizzare con voce, corpo, sguardo, movimento, fissità, spazio e tempo, un teatro totale. Di vivere sul proprio corpo e nella propria anima tutte le gamme della messa in scena. «È sempre una ricerca, sono tessere di un puzzle che a volte ti mancano, altre ti sorprendono».

Diventare autrice costituisce probabilmente un ampliamento del suo lavoro sulla voce…

«Direi che è il naturale ampliamento dello sguardo sull’espressione in toto. Sono convinta che nessuno abbia un solo talento, ma tanti. Difficile è avere il coraggio di lasciarli contaminare e osare sempre. Sono troppo curiosa e passionale per inscatolarmi in un solo ruolo. La scrittura mi è familiare, facile, naturale».

Il testo è una delle voci del teatro, anche muto, anche prima…

«Il testo è magia. È potenzialità informe anche nella sua forma, cambia nelle voci e nella sensibilità di chi lo legge»

«Io quando sogno volo», leggiamo all’inizio e in effetti, realmente, nei 55 minuti di monologo noi viviamo fisicamente un sogno e un volo. Attraverso la vicenda di Rita, moglie di un Mancini, a Pescia, attinta alle cronache e rivissuta.

«La storia di Santa Rita è quella di una trasformazione, di una mutazione fantascientifica, la muta dell’umano nelle sue declinazioni più profonde, magiche e terribili, il superamento del dolore assoluto, della paura, lo stato mistico dell’abbandono… L’ho incontrata, prima che nei libri e nelle cronache, nella storia delle donne della mia famiglia, come un fil rouge di devozione/attrazione verso un femminile magico e protettivo. La mia idea di Dio è materna».

Attrazione per il misticismo femminile?

«Assolutamente sì. È qualcosa che ritrovo in me stessa fin da piccolissima, che ho anche cercato di allontanare per un certo periodo, ma che è esplosa di nuovo, è parte di me».

C’è rapporto tra mistica e teatro? Intendo visione, uscita dal tempo...

«Da ragazzina ho avuto un momento in cui pensavo di ritirarmi in clausura, dopo qualche anno ero un’attrice. Credo che la matrice sia unica, non trovo scollamento nel mio percorso. Penso che sia un’assurdità pensare a una dicotomia tra corpo e spirito. Io ho sempre avuto una grande fisicità e un anelito spirituale potente. Crescere forse è l’arte di far convivere l’anima e il suo abito di carne». Il monologo scorre e brucia con naturalezza. Temevo, prima di leggerlo. I testi teatrali scritti dai grandi attori sono spesso imbarazzanti. Penso a Gassman e Albertazzi, ma anche ad altri. Ovviamente non c’entra Eduardo, che è prima un grande autore e insieme un grande attore. Il monologo di Laura Marinoni scorre in una prosa ondosa, ritmata, che in momenti culminanti si trasforma in verso, senza fatica, arditamente. Mi meraviglia questa tenuta di scrittura, esaltata da una recitazione che cresce continuamente di potenza interna, nel divenire drammatico della sua voce argentina e potente, in quelle “s” che pulite così non ne esistono, in quello spossessamento magico che è il prodigio dell’attore come io lo intendo. Non il mattatore, ma un interprete che si annulla nella propria voce e nella propria storia, come il poeta della famosa lettera di John Keats, l’essere più impoetico del creato perché versato nel dare voce a tutte le voci dell’universo. Mi meraviglia. Lei risponde che forse le è venuto bene «perché io scrivo in versi. Anzi, penso e recito in versi. Che poi, forse, è la prima lingua».

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