Miniatura raffigurante Manfredi tratta da un antico manoscirtto del “De arte venandi cum avibus” - archivio
«Biondo era e bello e di gentile aspetto». La maggior parte dei non troppissimi tra noi che ormai, in questi tempi di Striscia la notizia e di Soliti ignoti, ha ancora qualche reminiscenza non diciamo 'classica', ma quanto meno romantica, ricorda questo verso appartenente al III canto del Purgatorio dantesco, e magari rammenta perfino che quell’immagine si riferisce a Manfredi di Svevia, figlio di Federico II e suo successore sul trono regio di Sicilia, in pieno XIII secolo. Se non sono pochi a ricordare almeno questo, andiamo ancora benino. È lontano il tempo nel quale – una sessantina di anni fa – in prima serata il Quartetto Cetra faceva ridere fino alle lacrime un pubblico di casalinghe di Voghera e magari di manovali di Abbiategrasso con le sue parodie dei capolavori letterari. Era la 'Biblioteca di Studio Uno': e le vicende di D’Artagnan, di Ulisse, della Monaca di Monza erano tanto familiari a quel pubblico di milioni di persone tra le quali pochi erano laureati e non troppi gli almeno diplomati da farlo divertire sul serio, segno di una conoscenza intima e quotidiana. Immaginiamoci qualcosa di analogo oggi, in un mondo zeppo di quarantenni che pur hanno fatto magari l’Erasmus e di sedicenni che non hanno mai aperto un’Enciclopedia e sbrigano i compiti a casa via smartphone. Ma Paolo Grillo va sul sicuro, col suo Manfredi di Svevia. Erede dell’imperatore, nemico del papa, prigioniero del suo mito (Salerno, pagine 290, euro 22,00). Un tema dantesco per un libro uscito proprio sul limitare dell’anno dedicato al Sommo Poeta: e senza dubbio scritto anche per quel motivo. Tuttavia, per nulla un lavoro messo insieme per un’occasione celebrativa. Al contrario, un’opera dal taglio accuratamente meditato e dall’impianto tutt’altro che banale. Quel che insomma ci si aspetta da Grillo, medievista ordinario della Statale di Milano e, pur essendo studioso dai più che ampi orizzonti – leggetevi il suo Le porte del mondo. L’Europa e la globalizzazione medievale (Mondadori 2019) -, specialista soprattutto dell’'età comunale' dei secoli XII-XIII, è un lavoro di alto profilo, in grado di rinnovare anche un tema in apparenza fin troppo studiato come la biografia di un sovrano di casa sveva. Difatti, pur uscendo nella bella collana 'Profili', questa non è propriamente una biografia. E peraltro va detto che appunto i 'profili' in essa ospitati non so- no mai propriamente quello: di solito, della personalità biografata si mira a cogliere il nucleo, il senso storico: E la dinamica del suo mutare: perché la storia si muove; e, anche se i fatti in essa narrata sono comunque più o meno sempre quelli (eppure anche in ciò le novità non mancano mai), ne muta l’interpretazione. Ed ecco il fascino di questo libro: alius et idem, avrebbe detto Orazio.
Chi era Manfredi? Per rispondere, Grillo resta senza dubbio medievista: ma proprio per questo ci ricorda al tempo stesso di essere uno studioso sia del Medioevo quale esso a nostro attuale avviso fu e quale fu ricostruito, immaginato, magari anche frainteso e falsato attraverso i secoli. Insomma, studioso altresì del medievalismo. In quattordici dei sedici densi capitoli che compongono l’opera, ecco dinanzi a noi svolgersi il 'romanzo vero' di un giovane bastardo figlio di un imperatore e di una pur nobile dama, legittimato da nozze in extremis poco prima che la madre rendesse a Dio quell’anima per la sorte della quale aveva ragione di temere. Manfredi, appena diciottenne quando nel 1250 suo padre Federico II giunse a sua volta alla morte, si trovò a dover governare il regno di Sicilia in attesa dell’arrivo dalla Germania dell’erede al trono, Corrado IV che di Manfredi era fratellastro. Ma una serie ('fortunata', si direbbe) d’impreviste vicende fece sì che in breve volger di tempo egli si trovasse in effetti re di Sicilia mentre l’impero e i regni di Germania e d’Italia, ad esso associati fino da tre secoli prima, cadevano in un lungo interregno. Grillo ci guida con mano sicura nel vortice di eventi che caratterizzarono gli anni fra sesto e settimo decennio del Duecento, gli stessi immediatamente precedenti la nascita di Dante: Manfredi re in Sicilia (cioè nell’Italia meridionale), ma anche de factosovrano del regnum Italiae – il centronord della penisola – ostile al papato ma anche a una parte del mondo 'ghibellino' che guarda invece come a suo leader al potente padrone del Nordest, Ezzelino III da Romano; il capogiro del farsi e del disfarsi delle alleanze (si fa presto a dir 'guelfo', a dir 'ghibellino'), il triangolo della potenti città marinare – Genova, Venezia, Pisa – che sono al momento padrone del Mediterraneo e che dominano l’economia dello stesso regno siculo; infine la ben altrimenti che 'resistibile' ascesa del fratello di Luigi IX di Francia, il cinico e ambizioso Carlo d’Angiò, e il fatale scontro di Benevento nel quale, il 26 febbraio del 1266, re Manfredi trova la morte. Dopo essere stato scomunicato e deposto dal regno, il sire eminente del quale è il papa stesso. Paradosso nel paradosso: il figlio dell’imperatore muore come 'fellone', ribelle al suo signore. Tiriamo il fiato? Nemmeno per sogno. Ecco il coup de théatre nel quale – bisogna dirlo – Paolo Grillo dà il meglio di sé. Muore il sovrano sconfitto: nasce subito il suo mito. Si stenta a crederlo morto: come per il padre e per il grande avo, c’è chi lo aspetta, chi è sicuro che tornerà. Quindi, il mito del tradimento: gli eroi non cadono mai perché sconfitti, c’è sempre un giuda che li pugnala alle spalle; infine l’eroe del nostro Risorgimento che arriva quasi – tra Repubblica romana del 1849 e Italia fascista – a diventar eroe nazionale. Infine un nuovo oblio, dal quale tuttavia gli storici più recenti – e Grillo fra, con loro – lo stanno traendo per restituirlo serenamente, pacatamente ma non freddamente alla storia. Ed ecco d’epilogo, il capitolo XVI. Il Manfredi di Paolo Grillo, che ne ripropone la storia dagli stessi 'autoritratti' documentari alle testimonianze coeve alle ricostruzioni che, accanto al quadro politico e diplomatico, approfondiscono i temi della cultura, del pensiero, della vita di corte. Non è un Manfredi weberianamente 'disincantato': anzi – lo dico, intendiamoci, con simpatia e consenso – è in parte 'reincantato', spogliato di una grandezza ormai stereotipa ma restituito alle concrete proporzioni e alla seria importanza nel e per il suo tempo. Un ritratto senza sconti e senza anacronistici moralismi; ma non senza il sottile filo d’oro della pietas.