Una foto di Ermanno Foroni dal libro “Le terre dei sogni negati”: «Congo 2006»
C’è da credere che ciascuno dei profughi africani che in questi anni raggiungono le nostre coste abbia alle spalle una storia drammatica e memorabile, in qualche modo straordinaria. Eppure accade spesso che siano loro stessi i primi a dimenticarla, perché troppo dolorosa e insopportabile, oppure a modificarla per ragioni di sopravvivenza. Nei locali dove la polizia procede all’identificazione dei clandestini molti mentono sul paese di provenienza per evitare l’espulsione. Dichiarano false generalità. Scambiano la propria storia con quella di un altro perché la ritengono più idonea a sostenere una richiesta di asilo. Cambiano versione, la adattano a nuove richieste. Come sono andate veramente le cose ben pochi possono ricordarlo senza orrore, disgusto e desiderio di oblio. Alla fine non sanno più nemmeno loro cosa sia veramente successo. Per Soma Makan non è così. Lui ricorda tutto. Mi dice che la memoria è stata un dono di Dio, poi aggiunge che nell’adolescenza per qualche anno ha tenuto anche una specie di diario, che poi ha perduto insieme a tutte le poche cose che cercava di portare con sé, e che scrivere lo aiutava a sopportare meglio le sofferenze subite. Soma è nato in uno sperduto e poverissimo villaggio del sud del Mali. Non sa quando, e perciò ignora la propria età. Festeggia il compleanno il 13 aprile perché è stato il suo primo giorno di scuola, che considera il più bello della propria vita. Poco dopo la nascita sua madre decise di abbandonarlo. Aveva già un figlio piccolo e ne aveva appena perso un secondo a causa di una malattia che infuriava nel villaggio e decimava i bambini, così affidò il neonato a una donna che passava di là e ne aveva già raccolti altri. Soma è dunque cresciuto come un orfano. Pochi anni più tardi la donna generosa che lo aveva raccolto e accudito, che lo aveva anche iscritto a scuola, è morta e da quel momento è cominciata per lui una serie di temporanei affidi e traumatici abbandoni, l’ultimo dei quali lo ha catapultato appena quindicenne nella capitale Bamako, straniero nel proprio paese, solo e affamato. È vissuto per qualche tempo di elemosine o dei miseri lavori disponibili, fino a cadere nella trappola di attività illecite, che gli hanno causato una vergogna e un senso di colpa che ancora oggi lo tormentano.
Da quella che poteva diventare una china fatale lo ha salvato il fratello, che a sua insaputa da anni lo stava cercando e lo ha riportato al villaggio natio e ai propri genitori naturali, ora disposti ad accoglierlo. Ma la riconciliazione per Soma era a quel punto impossibile. Non riusciva a perdonarli per l’abbandono che gli aveva causato tante sofferenze e perciò ha deciso di fuggire dal proprio paese, alla ricerca di una dignitosa condizione di vita che in Mali gli era preclusa. Per farlo ha dovuto subire la sorte di tanti altri disgraziati come lui, le violenze e i soprusi dei trafficanti di uomini, la traversata del deserto sul cassone di un pick-up dove erano ammassati 36 ragazzi molti dei quali non sono arrivati a destinazione, la morte di un amico ucciso solo per essersi ribellato a uno dei tanti abusi. Dopo prove e traversie di indicibile atrocità, raggiunta finalmente la Libia, si è ritrovato in una condizione di bieco sfruttamento, costretto a lavorare 14 ore al giorno per 100 euro al mese. Poi finalmente, grazie alle proprie capacità, ha trovato un buon lavoro in un pastificio, con un vero stipendio che gli permetteva di coltivare qualche progetto. Ma è stata solo una breve illusione. Lo scoppio della la guerra civile che avrebbe travolto Gheddafi gli ha lasciato il mare come unica e insidiosa via di fuga. In procinto di partire una sera su un barcone degli scafisti, lui e altri 600 disperati, hanno saputo che quello partito al mattino era affondato e i suoi occupanti, fra cui avevano parenti e amici, erano tutti morti. A loro è andata meglio e sono riusciti ad approdare a Lampedusa. Da lì Soma sarebbe ripartito pochi giorni dopo, senza sapere nulla della propria destinazione. Come un sassolino o una foglia è caduto nel Centro di accoglienza di Marco, in Trentino.
Qui finisce la prima parte della storia che, sebbene tracciata solo per sommi capi, mi sembra offrire un’esemplare testimonianza del dramma epocale di cui sono vittime tanti giovani profughi africani, che dovrebbe suscitare quanto meno compassione, nel senso etimologico del sentire e soffrire insieme, e quindi il sentimento di accoglienza invocato da papa Francesco, uno dei pochi che non si stanca di ripeterlo ogni giorno. Ma la storia di Soma non finisce qui. Sto parlando di un giovane che ha oggi circa trent’anni, dotato di notevoli qualità e di una volontà di ferro. Ottenuto lo status di rifugiato, decide di candidarsi per ottenere un finanziamento del Fer (Fondo europeo per i rifugiati). Superata una severa selezione e dopo aver seguito un complesso percorso formativo, insieme a un amico, Soma apre a Trento un negozio di prodotti artigianali e gastronomici africani, che diviene un punto di riferimento per gli immigrati e organizza fra l’altro incontri e cene solidali fina- lizzate alla raccolta di fondi per progetti da realizzare in Mali. Chiusa dopo qualche anno questa attività, grazie alla stima che nel frattempo ha saputo guadagnarsi, Soma viene subito assunto da una cooperativa che collabora con la Provincia Autonoma di Trento per progetti di accoglienza agli immigrati. Comincia quindi a lavorare come mediatore e interprete per aiutare i profughi a inserirsi e ad affrontare le enormi difficoltà in cui si trovano dopo il loro arrivo. La sua vicenda biografica lo ha reso particolarmente sensibile al problema degli orfani. Perciò, nei suoi recenti viaggi in Mali, ne ha raccolto ventuno, di età compresa fra i sette e i vent’anni, li ha condotti nella capitale Bamako, dove a proprie spese li ha alloggiati in una dignitosa abitazione, li ha iscritti a scuola e provvede al loro mantenimento.
Tutto questo a un costo complessivo di 280 euro al mese, cioè circa 13 euro cadauno. E gli orfani ripagano tanta fiducia e impegno. Lo scorso anno sono stati tutti promossi anche con ottimi voti. Alcuni di loro, mi ha riferito Soma, erano intenzionati ad «andare a prendere la barca», come si usa dire fra loro. Ma hanno ben volentieri cambiato idea, nel momento in cui si sono visti offrire una prospettiva di vita nel proprio paese. In attesa di lunghi e complessi interventi strutturali, di un auspicato nuovo Piano Marshall in grado di mutare l’assetto economico dei paesi africani, ritengo che queste cifre possano far riflettere su ciò che sarebbe possibile e doveroso fare fin da subito per affrontare a monte il dramma dei profughi, come individui e come Stati europei che per secoli hanno costruito anche depredando i popoli africani quella ricchezza che ci consente di avere molto più del necessario e del superfluo, lasciando a loro fame, miseria e guerre. Fra le sue varie iniziative, Soma spedisce spesso piccole somme di denaro a famiglie bisognose che dal Mali gliene fanno richiesta. Se queste però vivono in villaggi sperduti, deve servirsi di intermediari, amici, o persone di fiducia. Ma spesso i soldi non arrivano a destinazione perché l’intermediario se ne appropria e fugge, nonostante questo sia per lui controproducente. Per un modesto e immediato guadagno si gioca un rapporto che anche solo in termini economici vale molto di più. Ma non gliene importa perché, come mi spiega amaramente Soma, per la gente del Mali conto solo il presente, mangiare oggi, arrivare a stasera. Il problema più immediato da risolvere è quello di ridargli un futuro.