Un’immagine dal film “Il Mago di Oz” - undefined
I racconti magici e fiabeschi che hanno nutrito nei secoli l’anima dei bambini – e continuano a nutrirla nonostante l’assedio feroce del disincanto – non possono ridursi a un catalogo univoco di gusti condivisi. Conosco chi non ha mai amato Pinocchio. Per quanto mi riguarda, la storia del Mago di Oz pubblicata da Frank Baum nel 1900, poi rinarrata in mille modi (anzitutto negli altri tredici libri ispirati al mondo di Oz, scritti dallo stesso Baum fino a creare una vera e propria saga; quindi in molti musical e film, tra cui il celebre Wizard of Oz di Victor Fleming con Judy Garland protagonista; infine attraverso un’enorme serie di traduzioni, anche nel linguaggio dei fumetti e dei videogame), non mi ha mai incantato da piccolo. Mi pareva che quella favola moderna sprigionasse qualcosa di sgradevole, acidulo e contorto.
Il Mago di Oz, un'odissea dell'anima
Lo Spaventapasseri e il Boscaiolo di Latta sembravano proiettare su tutte le vicende di Dorothy delle ombre dure e puntute, dei bagliori secchi, graffianti o metallici. Avevo torto, ma per capirlo ho dovuto leggere un libro di Carla Stroppa La magia del ritorno. Sulle tracce del Mago di Oz di Frank Baum (Moretti & Vitali, pagine 208, euro 18).
Originale figura di terapeuta junghiana, saggista innamorata di tutte le screziature dell’immaginazione, la Stroppa ha composto di recente uno studio sul Mago di Oz non solo acuto sul piano ermeneutico ma capace di farci riscoprire i doni di stile di quest’opera, la sua grazia paradossale, il suo humour funambolico, l’allegria surreale e circense delle sue trovate.
La qualità cruciale del racconto di Baum che Carla Stroppa sa mostrarci è il suo essere insieme una tessitura di figure leggere e un’avventura ricca di senso, una “piccola odissea”. Attraverso e oltre le superfici traslucide e sghembe dei luoghi e le silhouette bizzarre dei personaggi, la lettrice allieva di Jung sa riconoscere nel Mago di Oz una sorta di parabola di smarrimento e ritrovamento dell’anima: il volo di Dorothy nel vortice di un ciclone dal Kansas all’Altrove è il simbolo icastico di uno strappo dell’identità causato da un trauma nella vita della bambina. Il suo cercare un aiuto prima nell’amicizia con lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone Codardo, poi nei presunti poteri del Mago di Oz, è la messa in scena di un percorso di guarigione che permetterà infine a Dorothy di “tornare a casa” più luminosa e lieta, vibrante di un sentimento nuovo dell’esistenza.
La dote maggiore della piccola protagonista è il suo non arrendersi mai ai timori, ai dubbi e alle ombre, il suo insistere a credere nella forza dei sogni, il suo custodire una fiducia primaria nelle possibilità della vita di rigenerarsi. Poco importa se i suoi tre accompagnatori nel cammino verso il regno di Oz appaiono goffi, limitati e sbilenchi: in essi, fin dall’inizio, Dorothy sa intuire doti “umane” molto più rilevanti di quanto essi stessi riconoscano in sé. Poco importa, poi, che il sovrano di Oz non sia un “vero” mago ma solo un modesto illusionista: per quanto egli usi dei poveri trucchi per apparire il Re delle Metamorfosi, l’innocenza di fondo del suo carattere e l’umile ma radiosa matrice circense dei suoi effetti assicurano ai suoi gesti quella magia terapeutica e pacificante che conoscono e sanno trasmettere solo i poeti, o quei poeti sui generis che sono, o possono essere, i folletti dell’aria, gli arlecchini, i giocolieri, gli acrobati. Le azioni scenografiche del “mago” riescono davvero a far credere allo Spaventapasseri, al Boscaiolo e al Leone di aver finalmente acquistato ciò che più desideravano, e che in realtà avevano già senza saperlo: un cervello, un cuore e uno spirito intrepido. A sua volta Dorothy, illuminata dall’inconsistenza del finto mago come da un’incomparabile lezione di leggerezza, sa percorrere fino all’estremo un cammino fluttuante fra la terra e il cielo per ritrovare la sua dimora nel mondo, la sua intima verità.
Proprio come Dorothy, tutti coloro che, malgrado le prove del dolore e del male, riescono a preservare la fede nei doni lievi e vagabondi della poesia, nella bellezza gratuita degli incontri e nella magia liberatoria della fantasia potranno sempre, prima o poi, “entrare nel regno dei corpi sottili” per riscoprire il miracolo di essere vivi.
Alla ricerca del volto di Merlino
Il mondo medievale dei romanzi cavallereschi (arturiani, bretoni) più o meno legati ai miti celtici è un insieme di allegorie, emblemi, simboli, figure d’impareggiabile fascino. Spesso, leggendo quelle pagine, vacilliamo di fronte a incantesimi non solo seducenti per la loro bizzarria ma palpitanti di vibrazioni sacre, abissali. Qualcosa come la grande promessa d’una seconda Rivelazione – di una Verità in grado di “spiegare” in modo definitivo l’Incarnazione di Cristo – attraversa quei romanzi come la figura icastica, arcana e sfuggente del Graal o come un vento sottile, dolce e aspro, rapinoso, ingovernabile.
Nell’attesa che la Rivelazione ultima si manifesti, gli esseri in continuo transito tra i sentieri di quelle terre “altre” cercano non solo prove, sfide o nutrimenti spirituali ma anche aiuti magici, fatati: parole, gesti, esorcismi, talismani in grado di guidarli sui crinali dell’impossibile. Il sovrano del regno ipnotico, spiritato della magia è Merlino. Chi egli sia in realtà, è difficile dirlo. Per aiutarci a riscoprirne il complesso, labirintico fascino Alessandro Defilippi – medico, psicologo junghiano e romanziere – ha scritto un libro misto fra il saggio e il racconto intrecciando, ritessendo e rielaborando le fonti principali del mito del “Mago dei Maghi”: E poiché io sono oscuro… Di Merlino, del Graal e di Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali, pagine 200, euro 20).
Da diversi punti di vista il carattere polimorfo di Merlino, naturalmente votato al molteplice, ai percorsi obliqui e ambigui, ricorda Hermes e insieme il dio scandinavo Loki, un “beffatore” capace di mutarsi in mosca, in salmone o in giumenta. Assumendo via via volti o maschere da “guerriero, stratega, profeta, sciamano, trickster, incantatore, eroe, ciarlatano, amante, fantasma”, Merlino opera da maestro di ogni metamorfosi, d’ogni avventura, d’ogni scavo nei segreti della Differenza. Le radici sapienziali del suo insegnamento, però, tendono al riconoscimento dell’Uno, all’integrazione degli infiniti aspetti dell’essere nella Totalità cosmica, divina: la Tavola Rotonda – creata, secondo qualche versione del mito, proprio da lui – è una figura alta e lucente dell’Unità del tutto. Ma nemmeno il lato “neoplatonico” di Merlino esaurisce il senso del suo carattere e del suo destino: in questo mago sui generis cova anche un seme di fragilità che fa di lui una creatura malinconica, tenera e sofferente. Forse nel suo arrendersi finale a Viviana, nel suo consapevole sacrificarsi a lei per passione possiamo riconoscere un riflesso cristico?
Mentre suscita domande simili a onde di un mare iridescente e inquieto, il libro di Defilippi non ci fornisce mai risposte a senso unico. Il suo obiettivo di fondo non è certo di carattere filologico: spostandosi fra i molti e diversi strati delle vicende di Merlino come un cavaliere errante tra i dirupi dell’immaginazione o come un alchimista alle prese con pietre rare e sostanze eteree, Defilippi cerca i fili, i nodi, gli intrecci simbolici in grado di fare di questo mito un archetipo psichico, un condensato di senso, una riserva quasi inesauribile d’insegnamenti iniziatici.
Le liberissime strategie interpretative di Jung non costringono mai il libro entro recinti prevedibili, soprattutto non inducono mai l’autore nella tentazione di smascherare o ridurre la sostanza misteriosa, e proprio per questo poetica, del maestro di re Artù. Senza dubbio una profonda lacerazione attraversa l’anima di Merlino, non a caso spesso rappresentato come “doppio” e paradossale (eterno fanciullo e uomo vecchissimo, spirito candido e astuto, creatura sapiente e selvatica, o addirittura folle come in un celebre poemetto di Geoffrey di Monmouth). Eppure la forza della sua anima sa sfidare tutti i rischi di dissociazione per amore della bellezza o d’un sogno ardente di leggerezza: non è forse lui ad aver portato magicamente i megaliti a Stonehenge? Per quanto irretito a un certo punto dalla Dama del Lago, Merlino continua a lanciarci dal fondo dei secoli il suo grido dolce e doloroso, la sua esortazione a non rinunciare mai alla nostra ricerca di verità, alla nostra difficile quête.