Come sostengo sin dall’aggiornamento al Dizionario di filosofia di Abbagnano e come argomento nei miei ultimi libri, accanto a un significato largo o metodologico di «laicità » – che permette di dire che oggi credenti e non credenti, purché rispettino determinate procedure, sono tutti laici – esiste un significato ristretto o forte di «laicità», per cui il laico s’identifica con il non credente. Queste due accezioni ricorrono sia nel linguaggio ordinario, sia in quello colto. Tant’è che se da un lato parliamo di «laici credenti e di laici non credenti», dall’altro parliamo di «laici e credenti» oppure di una «cultura cattolica» distinta da una «cultura laica». Pretendere di abolire o di espellere dal dizionario questa seconda accezione – come attestano i fallimenti di coloro che si sono cimentati nell’impresa – non è possibile. Infatti, essa è tipica del mondo moderno ed è profondamente radicata nel linguaggio odierno (compreso quello giornalistico e politico). Più saggio – e corretto – appare quindi lo sforzo di usare in modo appropriato e contestualmente preciso le due occorrenze, evitando le confusioni (e gli equivoci) che derivano dalla loro mancata distinzione. Premesso che questi due basilari concetti di laicità – che taluni studiosi cattolici sembrano misconoscere e che invece Benedetto XVI nei suoi discorsi adopera in modo constatabilmente appropriato – sono entrambi spendibili nel mercato delle idee, è bene aggiungere che il laico in senso stretto (o forte) non è di necessità un individuo propenso a ritenere, come ha scritto Sergio Givone su questo giornale, che «la laicità significhi irreligiosità», ossia uno per cui la laicità risulta «in opposizione al religioso» (e «al fatto cristiano»).Infatti, la laicità in senso forte, cioè quel tipo particolare di laicità che consiste nel vivere senza Dio e senza religione, non va interpretata in modo univoco, ossia come una totalità indifferenziata, poiché ospita in se stessa due possibili ( e distinti) atteggiamenti ideal-tipici. Il primo, che si potrebbe definire a-religioso, rimanda, come suggerisce l’etimologia, a un letterale essere senza Dio e senza religione. Il secondo, che potremmo chiamare anti- religioso, rappresenta una radicalizzazione del primo e rimanda, come suggerisce l’etimologia, a un modo di vivere e di pensare ostile a Dio e alla religione, ossia a un letterale essere contro Dio e la religione. In altri termini, mentre l’atteggiamento areligioso (o moderato) pur comportando la non-credenza non implica necessariamente una contrarietà di principio nei confronti di Dio e della religione, l’atteggiamento antireligioso (o radicale) consiste non solo nel rapportarsi alla realtà etsi Deus et religio non darentur, ma nell’assumere, nei confronti dell’opzione religiosa, un comportamento avverso, che può assumere varie forme: dalla critica pacifica alla repressione violenta. Pur essendo concettualmente e storicamente connessi, poiché prescindono entrambi dalla credenza in Dio e in una religione, questi due atteggiamenti non sono tuttavia, tipologicamente parlando, la stessa cosa, poiché il fatto di essere senza Dio e la religione non implica, di diritto, il fatto di essere con- tro Dio e la religione. Ammessa la giustezza di questa distinzione, ne segue che uno dei limiti maggiori dell’odierno dibattito sulla laicità consiste nel misconoscere l’esistenza di una laicità forte che, pur essendo strutturalmente areligiosa, non è per questo anti-religiosa, ossia nel ritenere che la laicità forte faccia tutt’uno con la sua variante radicale e quindi con il cosiddetto «laicismo ». Storicamente e filosoficamente parlando, la categoria ideal- tipica della laicità antireligiosa risulta emblematicamente rappresentata dalla critica illuministica alla religione e da tutti quegli autori odierni – si pensi a Michel Onfray – che non si limitano a criticare le gerarchie ecclesiastiche, ma tendono a rapportarsi alla religione come a un insieme di false credenze. Rilevante, a questo proposito, è ad esempio la posizione dell’ultimo Viano, il quale, dopo aver sostenuto che i discorsi dei religiosi sono pieni di «falsità» e «distorsioni», conclude che «una società laica è quella in cui è possibile smascherare le imposture del clero e in generale dei profeti religiosi e nella quale ai cittadini vengono forniti gli strumenti per emanciparsi dagli insegnamenti religiosi». La categoria ideal- tipica della laicità forte areligiosa appare invece incarnata da quegli autori, di varia matrice filosofica, che, pur facendo professione di «agnosticismo» e pur prescindendo, in sede teorica e pratica, da Dio e dalla religione, si rifiutano di sottoscrivere sia la critica illuministica, sia la denuncia marxista e positivista, sia la diagnosi nietzscheana (e freudiana). Tipica, in questo senso, è la posizione di Bobbio, definito, a ragione, un «laico misurato»,ossia un laico secondo cui «un atteggiamento d’intransigenza e d’intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose […] è proprio il contrario dello spirito laico, o, se si vuole, della 'laicità' correttamente intesa, la cui caratteristica fondamentale è la tolleranza ». Significativa è anche la posizione di autori come Rawls e Habermas. Quest’ultimo, come è noto, pur continuando a difendere una forma di agnosticismo post-metafisico, non solo si rifiuta di ridurre le religioni a un insieme di credenze irrazionali, ma rivela, nei loro confronti, una forma di post-secolare apertura, protesa a valorizzare le loro potenziali riserve di senso e quindi i loro eventuali apporti cognitivi, etici e politici. Rawls sostiene a sua volta che le religioni possono offrire contributi preziosi alla stabilità e alla crescita delle democrazie odierne.Tutto ciò a conferma del fatto, storiograficamente documentabile, che esistono laici di matrice agnostica o atea che, pur non essendo credenti e pur non rientrando nella categoria degli «atei devoti», non per questo sono ostili alla religione. Laici non credenti, o laici in senso forte, che non possono quindi essere etichettati con la generica e polemica categoria di «laicisti».