«Per anni qualunque felicità universale è stata fatta dipendere sui giornali e col consenso degli economisti, dalla voce nasale e impastata di Greenspan, mentre dissertava sui decimi di punto di Pil. Ma l’anno scorso questo insistito bearsi è finito come si sa: con un crollo del Pil che ha fatto tornare il mondo a una Depressione, mai sperimentata dagli anni Trenta». Così si apre l’intervento di
Geminello Alvi sull’ultimo numero di
Equilibri. Rivista per lo sviluppo sostenibile, quadrimestrale edito dal Mulino, dedicato a un tema che ha ripreso piede negli ultimi anni, complice anche la crisi: quello dell’adeguatezza o meno dell’indicatore economico di maggior successo dal dopoguerra a oggi, e la cui forza di coercizione sulle politiche economiche globali resta schiacciante: il Prodotto interno lordo. È di solo nove mesi fa la consegna a Nicolas Sarkozy del rapporto della «Commissione sulla misurazione delle prestazioni economiche e del progresso sociale», coordinato da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi, uno degli atti più espliciti per arrivare all’adozione di un diverso parametro di valutazione dello
status economico di Paesi e società, in grado allo stesso tempo di offrire una via d’uscita dalla «religione del numero», come l’ha chiamata lo stesso presidente francese. Alvi, economista e saggista, noto per l’erudizione e le analisi non convenzionali, non cela il giudizio negativo sull’abuso che viene fatto oggi del Pil, ma anche il pessimismo sulla ricerca di indici sostitutivi che sondino la «felicità» diffusa o percepita delle popolazioni: «schemi di valore ancora più astratti e aberranti». Rimanendo la «felicità» una dimensione inattingibile dagli indici di misurazione e dall’economia stessa. «Lo star meglio dei Vangeli – scrive
Alvi ad exemplum – è un risanare, quello economico una misura di piacere accresciuta. L’economia è fatta per rendere gli uomini sempre più beati, ma l’anima che la riguarda e di cui si cura non è quella alla quale compete la condizione di felicità... L’economia moderna vuole più che sfamare o vestire: promette la vita in gradi via via più completi solo che si possa acquistarla. Il comunismo ripudia l’idea dell’acquisto, ma non è meno persuaso da questa promessa di vita che anzi impone allo Stato di riequilibrare. Per l’appunto i successi della Cina dipendono da una percezione aberrante della felicità ridotta all’utilitarismo nella sua variante sociale, collettivistica».E se una critica va fatta, per Alvi, non è tanto al Pil in sé, che resta sì inadeguato e abusato ma non inutile nelle sue proprietà contabili, quanto al cuore oscuro dei processi capitalistici che il Prodotto interno lordo copre e alimenta: «L’uso ideologico e inappropriato del Pil diventa, per esito di questi pensieri, rivelatore di ben altro, rivela il capitalismo nella sua essenza sempre taciuta, e quella sì davvero alienante. Il capitalismo abbisogna della crescita non solo per retribuire col profitto il capitale. L’ossessione della crescita dipende dal fatto che quanto è finto e malvagio se conosciuto diminuisce, di qui l’urgenza di rinnovarlo in un circuito senza fine, infinito. Il male se conosciuto diminuisce; il bene se conosciuto si accresce. Ai buoni occorre poco. Dunque anche meno e non più del Pil».Chiosa il giudizio di Alvi monsignor
Giampaolo Crepaldi, vescovo di Trieste, già segretario del Pontificio consiglio di Giustizia e Pace e presidente dell’Osservatorio internazionale "Cardinale Van Thuan" sulla Dottrina sociale della Chiesa: «Penso che il capitalismo così inteso sia il capitalismo come ideologia, o addirittura come metafisica: la metafisica del soddisfacimento utilitaristico dei desideri. L’economia, però, non è automaticamente questo capitalismo e la "crescita", intesa come aumento della capacità degli uomini di produrre meglio, organizzando in modo migliore il lavoro per ridurre i costi – non solo economici, ma anche e soprattutto umani e sociali –, collaborare gli uni e gli altri per rispondere agli autentici bisogni dell’umanità sia un bene. La crescita non è in sé un male. Noto comunque che in questo periodo – ora ci prova Alvi ma lo aveva fatto anche Böckenförde – rinascono forti critiche al capitalismo che tuttavia mi sembra corrano il pericolo di intenderlo, mi si passi la parola, "ontologicamente", mentre la Dottrina sociale della Chiesa – si veda Giovanni Paolo II nella
Centesimus annus – invita a distinguere tra il capitalismo come sistema economico e il capitalismo come ideologia».Dissente invece sull’inutilità di occuparsi scientificamente del rapporto tra economia e felicità Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università di Milano-Bicocca, che in questi anni ha rilanciato assieme ad altri in Italia questo filone di ricerca: «Il concetto di felicità applicato all’economia nasce proprio nel nostro Paese: quando alla fine del ’700 gli inglesi parlavano di wealth of nations, gli economisti italiani parlavano di "felicità pubblica", una visione di ispirazione comunitaria, latina e cattolica. Erano consapevoli che guardare solamente alla "ricchezza delle nazioni", trascurando altre variabili, rendeva impossibile capire se alla crescita economica corrispondesse un maggior benessere, in senso letterale. Un indicatore oggettivo ancorato alla produzione di beni e servizi, come il Pil, sarà sempre importante. Semplicemente si è rivelato un parametro più adatto per le società in via di sviluppo, dove la crescita economica era ed è strettamente correlata alla crescita delle libertà e dei diritti individuali. Il problema è quello che Luigi Einaudi chiamava il punto critico, una soglia superata la quale ciò che prima era "buono", come la crescita, esibisce effetti collaterali negativi prima inesistenti. Il Pil va affiancato ad altri indici che siano complementari. Penso agli indici di impatto ambientale, agli indicatori di capitale sociale o di qualità della vita, che già esistono, o all’indice di sviluppo umano, nato dal lavoro di economisti come Amartya Sen negli anni ’80 e ’90». Aggiunge a questo proposito Crepaldi: «Si può dire del Pil quanto la Dottrina sociale della Chiesa ha detto del profitto. Esso è un indice del buon andamento dell’economia, ma non è l’unico. Dicendo che non è l’unico intendo sostenere che se preso da solo non funziona nemmeno dal punto di vista economico, non è un indicatore completamente attendibile. Se penso che quando sono fermo in auto al semaforo e consumo benzina aumento il Pil del mio paese, capisco che è sì un elemento ma non certo l’unico. La speculazione, quella che poi ha causato una caduta del Pil, prima lo aveva fatto aumentare». E per Crepaldi, comunque, le insidie si celano anche negli indici complementari: «Bisogna stare però anche attenti a quali variabili introduciamo per completare il Pil, o meglio per liberarlo dai caratteri solo quantitativi. Ricordo che quando, ormai parecchi anni fa, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo sostituì l’"Indice di sviluppo" con l’"Indice di sviluppo umano", tutti plaudimmo al cambiamento. Considerare infatti l’indice di sviluppo dei popoli non solo in termini di Pil ma anche tenendo presente indici qualitativi come la mortalità infantile, l’accesso all’acqua potabile, alle cure sanitarie e alla scolarizzazione fosse un passo in avanti molto importante. E così infatti fu. Però, in seguito, dentro il tema della "uguaglianza di genere", che inizialmente misurava il grado di empowerment delle donne nelle rispettive società, si insinuò la "ideologia del genere" e quella della "salute riproduttiva", che non possono considerarsi elementi di sviluppo umano secondo la Dottrina sociale della Chiesa. Il tema principale è ancora una volta quello etico, o meglio, antropologico, dal quale l’economia spesso ancora rifugge».