In un’epoca come il Novecento, dove gli scontri interreligiosi non sono mancati, testimoni come André Chouraqui ( 19172007), ebreo francese nato in Algeria, emigrato a Gerusalemme, capace di compenetrare magistralmente le tre religioni abramitiche ( tradusse e commentò i tre Libri Sacri, Bibbia ebraica, Vangelo cristiano e Corano islamico) sono da riscoprire e leggere con profitto. Anche per i temi che sa affrontare insieme ai grandi nomi della cultura novecentesca che si incontrano ne Il destino di Israele (in uscita per le Edizioni Paoline, pp. 248, euro 14). Cristianesimo e Shoah, Chiesa e Israele, il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento: sono i temi che si intrecciano negli scambi, epistolari e de visu, qui raccolti tra Chouraqui e alcuni intellettuali suoi amici. Amanti del vero sapere, gli interlocutori dell’erudito ebreo ( Jules Isaac, Jacques Ellul, Jacques Maritain e Paul Claudel) vanno spesso controcorrente rispetto alla vulgata comune, incuneandosi con originalità di giudizio tra le dicerie del tempo. Tra Chouraqui e Maritain il nodo è papa Pacelli e la Shoah: il primo – siamo nel 1969 – denuncia all’amico cattolico «il silenzio di papa Pio XII nell’ora della persecuzione hitleriana ». Maritain, in risposta, rivela all’amico che tale « silenzio » non fu indifferenza di Pacelli, ma prudenza, per di più su suggerimento dagli ebrei di Germania: «Quanto a Pio XII, sarebbe gravemente ingiusto attribuire a indifferenza il suo silenzio nell’ora della persecuzione hitleriana: a Roma mi sono informato in alto loco sulle ragioni di questo silenzio, e so che è stato dovuto solo alla paura di aumentare gravemente la persecuzione, se avesse alzato la voce». Anzi, l’autore di Umanesimo integrale fornisce una notizia davvero significativa: «Il papa aveva consultato alcune comunità ebraiche tedesche, ed è proprio questo che esse avevano risposto. […] Il suo motivo è stato quello che ha ritenuto un obbligo di coscienza, ed era un motivo profondamente umano». Chouraqui poi si distanzia da ogni sterile polemica ebraica anti- cristiana post-bellica: «Non è lamentandosi né mostrandosi sistematicamente aggressivi che si potrà rimpiazzare la conoscenza lucida dell’eredità di Israele». Ancora: egli si pronuncia in difesa dei sacerdoti cattolici accusati di aver costretto al battesimo i ragazzi ebrei loro affidati per sottrarli ai rastrellamenti nazisti: «L’ostilità sistematica contro qualche Ordine o raggruppamento di uomini rinnega la vocazione profonda di Israele che rimarrà sempre quella dell’unità d’amore riassunta dall’ordine dello Shemah». Il riferimento è all’affaire- Finaly, due ragazzi ebrei nascosti in Francia e Spagna da istituzioni cattoliche, battezzati nel ’48 e nel ’53 mandati da un giudice in Israele. Jacques Ellul aveva difeso pubblicamente sulla rivista Terre retrouvée padre Démman, accusato dal rabbino Wladimir Rabinowitch in merito al caso- Finaly. Ebbene, Charouqui, in una missiva del ’53, plaude all’apologia del sacerdote fatta dal pensatore protestante. Vi è poi, lungo il volume, la convinzione dei vari interlocutori sul fatto che la furia hitleriana contro gli ebrei abbia avuto anche un pervicace elemento anticristiano. Nel settembre del ’45 Chouraqui scrive così a Jules Isaac, iniziatore dell’Amicizia ebraico-cristiana: «Anche Israele rimane un mistero, come una 'smorfia di croce'. Hitler costituisce una tappa della nostra storia per il semplice fatto, forse, che si è messo anche contro la Chiesa. Noi abbiamo sofferto con dei cristiani, e talvolta dei cristiani hanno sofferto al posto di ebrei. E l’ora di un ravvicinamento ebraico- cristiano, di una riunione, non sarebbe suonata con quella dei nostri milioni di martiri comuni?». Pure nel dialogo tra Chouraqui e Paul Claudel emerge la convinzione di quest’ultimo che l’ora terribile dell’Olocausto abbia accomunati tutti i figli di Abramo: «Quello che vi è di notevole e di inaudito è che, per la prima volta forse, ebrei e cristiani sono stati mescolati in un sacrificio comune e hanno sparso il sangue insieme per lottare contro una stessa barbarie idolatra». Di qui l’idea del poeta transalpino di chiedere al Papa, tramite Maritain, allora ambasciatore di Parigi in Vaticano, di istituire «una cerimonia di espiazione per rispondere all’orrore dei crimini commessi in Europa contro gli ebrei». Che la Shoah abbia accomunato ancora di più cristiani ed ebrei in un destino comune lo attesta anche Ellul quando annota a Chouraqui (1967): «La mia fedeltà di cristiano verso il popolo eletto è legata alla mia fede in Gesù Cristo». Tra grandi, poi, per di più se di diverse confessioni religiose – Ellul e Maritain erano due cristiani convertiti, uno protestante e l’altro cattolico; Chouraqui un ebreo fortemente sostenitore della causa sionista – il dialogo si affronta partendo dalle proprie convinzioni e non cedendo ad un 'concordiamo' di bassa lega. Lo ribadisce Maritain nel ’66: «Quanto sono felice che […] in Israele non si sia scioccati dalla prospettiva cristiana sotto cui si sviluppa tutta la mia meditazione! A mio avviso è una condizione del vero dialogo, ma non tutti la sentono in questo modo, con l’ecumenismo un po’ molle che regna ai nostri giorni in numerosi spiriti » . E tra Chouraqui ed Ellul non mancarono divergenze sull’islam: quest’ultimo (nel 1987) asserisce: «Credo sia un’illusione pensare che ci sia fraternità tra le 'tre religioni monoteiste'. No! Allah non ha nulla in comune con JHWH, il Corano non ha nulla in comune con la Bibbia ». Chouraqui concede all’amico solo una ragione «occasionale»: « L’islam, la sua condizione mi sembra sia lontana dal Corano quanto l’ebraismo e il cristianesimo possono esserlo dai grandi ideali biblici». A sinistra, André Chouraqui. Sopra, donne e bambini ebrei ospitati da Pio XII negli appartamenti papali a Castel Gandolfo. A destra, Jacques Maritain.