Racconta Paolo Diacono nella Storia dei Longobardi che re Autari, giunto a Benevento, decise di proseguire fino a Reggio, «estrema città dell’Italia, vicina alla Sicilia». Ad annunciare il finis terrae stava una colonna «posta nelle onde del mare » che il sovrano toccò con la punta della lancia, proclamando solennemente che «fin qui saranno i confini dei Longobardi». L’immagine della “colonna di Autari” – sulla cui effettiva esistenza già lo storico medievale mostra una certa prudenza – torna spesso in mente al visitatore della mostra Longobardi: un popolo che cambia la storia, aperta fino al 26 marzo al Museo Nazionale Archeologico di Napoli (il catalogo, di grande interesse per la vastità dei temi affrontati e la qualità degli approfondimenti, è curato da Gian Pietro Brogliolo, Federico Marazzi e Caterina Giostra per Skira).
Siamo alla seconda tappa di un percorso iniziato nell’autunno scorso a Pavia, capitale longobarda per eccellenza, e destinato a concludersi tra aprile e luglio all’Ermitage di San Pietroburgo, quasi a sancire la circolarità fra le diverse dimensioni – settentrionale, meridionale, orientale – che si intrecciano nella vicenda del popolo sceso dalla Scandinavia in Pannonia (la regione storica compresa tra Ungheria, Austria, Croazia e Slovenia) e poi penetrato in Italia dall’attuale Friuli. Di Cividale, per esempio, era originario proprio Paolo Diacono, morto a Montecassino attorno al 799 in un’età compresa fra i 70 e i 75 anni. Ma perché dovrebbe essere così importante la colonna di Autari? Perché segna un incontro e, nello stesso tempo, pone un limite. Quest’ultimo è facile da riconoscere: cominciata all’altezza del 568 e favorita dagli esiti della guerra greco-gotica, la conquista longobarda trova il suo compimento nella formazione dei ducati di Spoleto e Benevento, che ne segnano appunto il limite meridionale. Mai estesasi alla Calabria, questa Langobardia minor si dimostrò più longeva e tenace della maior, ovvero del regno settentrionale sul quale si appuntarono relativamente presto le mire espansionistiche dei Franchi (lo scenario, com’è noto, viene ripreso da Alessandro Manzoni nell’Adelchi).
Come quello del Nord, anche il dominio del Sud ebbe il suo storiografo nella persona del monaco Erchemperto, vissuto tra IX e X secolo. La sua opera, senz’altro meno pregevole sul piano letterario rispetto a quella di Paolo Diacono, ha il merito di offrirci molte notizie sulla complessa convivenza dei ducati Longobardi con le ultime propaggini ammini-strative dell’Impero bizantino e, più ancora, con le avanguardie musulmane, le cui apparenti scorrerrie rispondono in realtà a una robusta logica di consolidamento territoriale. Resta da spiegare quale incontro possa essere avvenuto tra la colonna di Autari e la sua lancia. Al loro arrivo in Italia, i Longobardi sono caratterizzati da un’organizzazione ancora tribale e da un atteggiamento di sostanziale sincretismo religioso, che sotto la patina del cristianesimo ariano nasconde ben riconoscibili credenze pagane. Ne dà testimonianza il sistema delle sepolture, scrupolosamente documentato in mostra anche attraverso la ricostruzione delle tombe nelle quali il guerriero veniva inumato insieme con il suo cavallo e spesso anche con il suo segugio.
Già in questo momento i Longobardi sono padroni delle «arti del fuoco», come le definisce in catalogo Vasco La Salvia. La metallurgia anzitutto, in uno scambio continuo tra la fabbricazione di armi e la confezione di monili che trova il suo punto di equilibrio nella spada rinvenuta in una tomba di Nocera Umbra ed eletta, non casualmente, a emblema della mostra. Fibule ornamentali di forte fascino, tra le quali spiccano quelle appartenenti ai cosiddetti “ori di Senise”, nel Potentino, ma anche guarnizioni di straordinaria raffinatezza, e orecchini, collane, amuleti, croci di straordinaria fattura come quella, intessuta di motivi antropomorfi, proveniente da Cividale. Ma arte del fuoco è anche quella che permette la realizzazione dei magnifici corni potori in vetro, di un blu intensissimo, che trova riscontro in numerose raffigurazioni dell’epoca. Prima di insediarsi in Italia, invece i Longobardi non conoscevano le arti del freddo. Il marmo, in particolare, è una scoperta assoluta, che in un arco di tempo relativamente breve si evolve in una capacità di ideazione ed esecuzione che toccherà l’apice nelle grandi istituzioni monastiche meridionali di Montecassino e San Felice al Volturno. Se quello della colonna toccata dal ferro di Autari era, con ogni probabilità, un marmo ancora classico, pagano, la progressiva specializzazione di cui danno conto, tra l’altro, i capolavori di Brescia e Lucca va di pari passo con la definitiva adesione dei Longobardi alla fede cattolica.
Convenzionalmente legata alla battaglia di Cornate (688 circa), nella quale il re Cuniperto sconfigge l’ariano ribelle Alahis, la conversione alla Chiesa di Roma rimane l’evento centrale in un processo del quale fanno parte lo strutturarsi dell’ordinamento monarchico e il rafforzarsi degli insediamenti urbani. In questo senso, davvero la vicenda dei Longobardi «cambia la storia», fondando il nucleo di un’identità italiana che, oggi come allora, si nutre della complessità e della pluralità di esperienze. Che andasse così non era scontato. In La villa romana, il bellissimo racconto degli anni Settanta che Pier Paolo Pasolini tenne presente nella tormentata stesura di Petrolio, Anna Banti volle ricostruire la parabola enigmatica dei Godoari, un’immaginaria tribù del Nord che, a differenza dei Longobardi, si sottrae all’assimilazione e all’integrazione simboleggiata dalla competenza giuridica dell’Editto di Rotari oltre che dalla “beneventana”, l’originale forma di scrittura sviluppatasi in ambito meridionale. I Godoari continuano a fare orgogliosamente parte a sé stessi, ma anche il loro ferro subisce il fascino del marmo su cui si regge l’antica villa abbandonata. Quale che sia il finale, l’inizio rimane quello indicato da Paolo Diacono nelle prime righe della Storia dei Longobardi: la Germania, scrive, è una terra popolosa, ma che non riesce a sostenere tutti i suoi abitanti. Per questo «molti furono i popoli che ne uscirono volontariamente », in una migrazione imponente e, come al solito, inarrestabile.
Fa tappa al Museo archeologico la rassegna dedicata al popolo che, anche attraverso la conversione al cattolicesimo, diede vita al nucleo di un’identità italiana plurale e complessa
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