In primo piano: Sam Keogh, "Knotworm", 2019 (Courtesy dell’artista e Kerlin Gallery, Dublin. ©Blaise Adilon). In secondo piano: Holly Hendry, "Deep Soil Thrombosis", 2019 (Courtesy dell’artista e Hould Sworth, Londra. © Blaise Adilon)
Tout se tient dans la langue, diceva Saussure. Tutto è in relazione nella lingua, se ignori una parte il sistema diventa incomprensibile – ma la struttura per reggere deve essere elastica, aperta alle modificazioni. È la chiave della 15ª Biennale di Lione, intitolata Là où les eaux se mêlent (“Là dove le acque si mescolano”: da una poesia di Raymond Carver e insieme omaggio alla città sorta alla confluenza di Saona e Rodano) e affidata collettivamente al team curatoriale del Palais de Tokyo, il quale parla di «paesaggi porosi», un «ecosistema antropico, alla giuntura dei paesaggi biologici, economici, e cosmogonici». Dietro la metafora dell’acqua ecco allora i flussi dei mercati, delle informazioni e delle persone. Una stratificazione orizzontale e verticale in cui alla contaminazione si preferisce l’intreccio, dal quale si genera «la trama del mondo».
La parola chiave di questa Biennale è dunque «ecosistema», e la dimensione ambientale è quella ricercata da gran parte dei cinquantacinque artisti invitati da tutto il mondo: anche al Mac, il museo di arte contemporanea di Lione, dove giusta si è rivelata la scelta decongestionante di affidare a pochi artisti l’intervento su più sale o addirittura più piani.
Il vero teatro della Biennale sono però le ex officine Fagor, 29mila metri quadrati di una fabbrica recentemente dismessa. Lo spazio gigantesco e uniforme consente ai curatori di fare dell’ecosistema il principio alla base dell’impianto espositivo, con le opere che compongono non solo un vasto paesaggio ma che in molti casi creano interferenze reciproche e in alcuni entrano in simbiosi con la struttura (il caso limite è l’installazione praticabile di Yona Lee, una terrazza-appartamento in tubi abbarbicata a svariati metri di altezza). Le opere a loro volta si sviluppano come installazioni diffuse su una scala grande anzi grandissima, che consente di mettere in atto dispositivi complessi sotto il profilo relazionale.
La sudafricana Simphiwe Ndzube in Journey to Asazi compone uno scenario vasto, immaginifico e inquietante, che combina una processione di stecche di legno con scene popolate da gonfi manichini senza volto: uno precipita a mezz’aria, altri due siedono su una barca in cima a un onda di sabbia, un gruppo avanza come zombie su una sorta di isola desertica. È uno spazio magico in cui si muovono forme cariche di una ironia tragica. Ci sono al fondo il tema delle migrazioni e dello spostamento, ma tutto è risolto senza retorica solo sul piano visivo e su quello della metafora.
Il messicano Fernando Palma Rodriguez fa danzare nell’aria come meduse o fantasmi un quarantina di abiti da bambina, facendoli scendere e salire secondo combinazioni sempre diverse. La leggerezza e l’impermanenza dell’opera fa sì che venga sempre osservata insieme ad altre, come ad esempio il roveto gigante in alluminio di Jean-Marie Appriou: un oggetto organico che contrasta con le forme delle officine e insieme ne condivide la natura industriale ma che soprattutto ricorda come la natura in “libertà” sia anche difficile e violenta: i rovi infatti sono i primi arbusti a riappropriarsi di un luogo abbandonato.
Artificiale/naturale e organico/tecnologico sono coppie su cui si sono concentrati molti artisti attraverso la chiave dell’ibridazione. Eva L’Hoest propone un lavoro ipnotico che affianca scultura e video, sviluppando nel merito dei due medium lo stesso tema. Il video, una sorta di rebus lynchiano nel suo combinare familiare e perturbante, esplora un giardino in cui forme umane e animali in sostanze sintetiche si trovano come congelate o in decomposizione mentre altre vive sono di materia liquida o generate dalla corteccia degli alberi. La stessa ambiguità e l’esplorazione liminare del concetto di corpo è al centro delle sculture: le forme appaiono come proiezioni nello spazio di punti di luce che crescono e si strutturano in impalcature geometriche dai moduli tanto rigorosi quanto elastici, fino a produrre le fattezze di un cane oppure di uomini. Sono ologrammi solidi e fragili, dalla superficie vetrata, come di ghiaccio, frutti di un algoritmo autocreato da una intelligenza artificiale.
Sull’ambiguità tra assimilazione e differenza si gioca il campo della percezione e quindi della comprensione. Basta che una forma sia umana perché essa sia un uomo? Basta che una cosa appaia naturale per essere naturale? Dove si fissa il limite tra vivo e non vivo, dove i confini tra i regni? Questo aspetto viene esplorato attraverso opere che uniscono scultura e processo. La ceramica e il metallo delle sculture di Isabelle Andriessen interagiscono, si parassitano, si corrompono in liquidi dall’apparenza organi- ca: danno forma a un ecosistema dinamico che appare come un paesaggio infetto. Un pezzo estremo è Prometheus delivered dell’austriaco Thomas Feuerstein. Una versione in marmo del Prometeo incatenato di Nicolas-Sébastien Adam è lentamente decomposta e divorata da batteri mangiapietra. In parallelo gli stessi batteri nutrono delle cellule epatiche umane per coltivare un fegato artificiale per Prometeo. Non solo: fermentati e distillati i batteri producono una bevanda alcolica.
Si collocano infine in una sostanziale indistinguibilità tra organico e meccanico (e perfettamente inserite nell’habitat industriale delle officine) le sculture di Mire Lee, grossi fasci di tubi e catene che si contorcono dentro bianchi liquidi viscosi. Trasmettono il senso di una sofferenza causata dalla tortura, evidentemente impossibile nella macchina: eppure in qualche modo si attivano processi di tipo empatico. Come è possibile provare empatia nei confronti di una macchina? Accade se istintivamente riconosciamo in essa qualcosa di organico e quindi di prossimo a noi?
Si riscontra il tema dell’ibridazione anche nelle mostre collaterali, come quella allo Iac, l’istituto di arte contemporanea di Villeurbanne, dedicata a giovani artisti. Molte le opere riuscite, come l’installazione dai toni cyberpunk dell’italiana Beatrice Cenci. Ma se la mostra alle officine Fagor talvolta il gigantismo si gonfia e si vizia di grandeur, le magnifiche miniature di Théo Massoulier ci ricordano come le dimensioni non contino di fronte all’idea e alla poesia. I suoi Anthropic Combinations of entropic elements sono assemblage dell’antropocene: figure tragiche e deliziose, tra il freak, la drôlerie boschiana e la grazia di una malinconica meraviglia.
Lione, sedi varie
15ª Biennale de Lyon
Là où les eaux se mêlent
Fino al 5 gennaio