Risata contagiosa, occhio allegro e nasone che ispira simpatia. L’identikit di Daniel Ricciardo è presto fatto. Per entrare nella storia della Formula 1 doveva solo vincere almeno una gara e domenica sera in Canada c’è riuscito. Impresa meritoria, visto che ha battuto le Mercedes che da inizio stagione hanno vinto tutto. Impresa straordinaria anzi, perché con la sua vittoria Ricciardo ha iscritto un nome inedito nell’albo della F.1. E poi perché alla Red Bull fra lui e Vettel, vedere vincere lui ha fatto piacere a tutto il paddock, mentre quando vince il tedesco sono più i musi lunghi che quelli felici.
Ricciardo, come dice il nome, ha origini italiane. Lo spilungone australiano, nato a Perth il 1 luglio 1989, ha il padre Joe che è di Ficarra, Sicilia, mentre la mamma è calabrese. Per questo parla italiano, anche se con forte accento calabro-siculo. Ma questa è anche la sua forza. Non aver rinnegato le origini tricolori, ma essendo tutto australiano, è il punto di congiunzione fra le due terre. Il suo arrivo nelle competizioni europee risale al 2008 quando cominciò con la solita trafila, F.3 F.Renault, World Series fino a diventare collaudatore Toro Rosso. Infatti, Daniel Ricciardo fa parte della schiera di piloti forgiati dalla scuola Red Bull che oltre a lui ha svezzato Vettel, Buemi, Alguersarsi, Kvyat, Vergne, Liuzzi. In pratica quasi mezzo schieramento di F.1.
Per capire se il ragazzo avesse i numeri per la F.1, Helmut Marko, gran cerimoniere in pista di Red Bull, lo girò alla HRT, una piccola formazione spagnola con cui correva il nostro Tonio Liuzzi. Liuzzi faceva parte del programma Red Bull, aveva corso sia con Toro Rosso sia con Red Bull stessa, quindi per Ricciardo era un termine di paragone importante. Se fosse andato più piano o più forte di Liuzzi, si sarebbe capito subita la stoffa, senza perdite di tempo. E fu così che al debutto, Ricciardo cominciò a seguire i GP da dietro, in fondo alla griglia, in fondo a tutto e quando riuscì a finire la prima gara, il commento fu tipico del suo stile. Una mezza parolaccia, italiana ovviamente, e la constatazione :”Ma quanto cavolo vanno forte tutti quanti? Non ce ne è uno che molla niente, accidenti se è dura sta F.1…”.
Poi la crescita, l’esperienza, la promozione alla Toro Rosso e da quest’anno il passaggio alla Red Bull dove ha messo in crisi il 4 volte campione del mondo Vettel. “Non so perché son più veloce, Sebastian va forte, io ho ancora tanto da imparare”, dice con umiltà. Poi scende in pista, guida da paura e rifila la paga al più blasonato compagno di squadra. Merito delle nuove macchine, che vanno guidate in un certo modo (che Vettel invece ancora non ha digerito). Merito del talento che gli fa capire cosa fare senza commettere errori. Nelle situazioni difficili, Ricciardo è uno che sbaglia poco, è grintoso, deciso, ma non fa scorrettezze. E per questo lo apprezzano tutti. Quando poi comincia a sorridere, lo fa partendo dagli occhi e con il suo viso da emigrante siciliano che ha fatto fortuna, anche se non è emigrato affatto, non ci ha messo molto a conquistare i cuori di tutti i tifosi.
“Incredibile - ha commentato alla fine - non ci credo ancora. Ho vinto, lo sognavo e non so come è successo. Finire poi la corsa dietro alla safety car, quasi al rallentatore, è stato strano ma in quel momento mi sono preoccupato di Massa e Perez che sapevo coinvolti in un incidente brutto, mi han detto che stavano bene e allora ho pensato alla festa. Mi sono scolato tutto il bottiglione di champagne da solo sul podio, ho cambiato il volo di ritorno a casa, questa giornata va festeggiata...”. Anche se poi, al mattino seguente, di ricordi nitidi non ce ne sono stati tanti. Ma va bene così. Nell’anno delle frecce d’argento dominanti, vedere che qualcuno riesce a vincere e a farlo mantenendo quella umanità che altri hanno perso, ha fatto doppiamente piacere.