Il 23 maggio 1999, giorno di Pentecoste, lo scrittore Luigi Santucci – «Lillo» per gli amici – moriva nella sua casa milanese. A distanza di 10 anni, vorrei riproporre nei suoi confronti una testimonianza molto personale, perché anche altri possano recuperare dalla polvere della «smemoratezza » contemporanea una figura letteraria e umana molto suggestiva e significativa per la storia della cultura del Novecento. La mia amicizia con lui è stata per lunghi anni solo implicita. Tutto era iniziato quando ero ancora studente di teologia e a Roma avevo acquistato uno dei suoi primi romanzi (anzi, quello che lo avrebbe svelato al grosso pubblico), Il Velocifero. Il legame implicito era continuato anche successivamente. Infatti, ormai sacerdote da un anno, nel 1967, avevo letto ancora a Roma quello che considero il suo capolavoro, l’Orfeo in Paradiso. Diventato poi insegnante nei seminari milanesi, durante le vacanze natalizie del 1971 avevo seguito la trascrizione televisiva di quel romanzo, un intenso sceneggiato di Leonardo Castellani, coi dialoghi di Italo Alighiero Chiusano, che sarebbe poi divenuto anche mio amico, con un emozionante Alberto Lionello nella figura del giovane Orfeo e un inquietante Monsieur des Oiseaux incarnato da Arnoldo Foà. Non so quando l’ammirazione a distanza divenne incontro. So, però, chi abolì le distanze: fu la moglie amatissima dello scrittore, Bice, che aveva ascoltato le mie conferenze bibliche al Centro San Fedele di Milano. Da allora la sua casa milanese di via Donizetti fu sempre aperta per me, accolto come un fratello o un figlio da una famiglia unita e numerosa, pronta a festeggiare ogni comune ricorrenza, spesso unendo ad essa anche la mia famiglia. Ma fu dal 1990 che la nostra consuetudine si fece più intensa. Santucci era riuscito a trovare per mio padre e le mie due sorelle una casa estiva accanto alla sua a Bellagio. Lassù, davanti a un panorama mozzafiato, al lago manzoniano per eccellenza, quello di LeccoComo, e all’incombere frontale delle due Grigne, ogni giorno ad agosto, «Lillo» – salendo una piccola erta e superando un varco nella siepe divisoria dei due giardini – si presentava cercando di «sorprendermi» mentre ero intento nella lettura o nella scrittura. È attraverso quegli incontri quotidiani, in quei pomeriggi luminosi, che ho potuto conoscere liberamente il cuore, l’umanità, la spiritualità di Santucci. Egli era un uomo radicalmente buono, capace di amori forti e autentici, sempre generoso e persino umile con tutti. Egli ignorava quell’erba maligna che alligna tra scrittori e intellettuali, la gelosia, l’invidia e l’orgoglio altezzoso. Appena letto il libro di un collega e dopo essere stato conquistato anche da una sola pagina, non esitava a scrivergli tutta la sua ammirazione. Anche un articolo di giornale, dove trovava un’intuizione felice, lo spingeva a scrivere o a telefonare un ringraziamento spontaneo (accadeva spesso con Magris e Carlo Bo). Ironizzavo su questi suoi en- tusiasmi che avevano avvolto anche me: l’avevo amabilmente denominato «l’Encomiasta», perché il suo crescendo di elogi sembrava non raggiungere mai un tetto. Egli sentiva quasi la sacralità dell’amicizia, alla quale aveva riservato (con Angelo Merlin) un’antologia bellissima, Il libro dell’amicizia; un sentimento che egli ha praticato fino agli ultimi tempi, con gli antichi e giovani amici. A loro indirizzava dediche folgoranti sui suoi libri, battute lapidarie, stornelli in rima (le pareti di una delle mie stanze sono tappezzate di questi segni d’affetto). Santucci era, poi, un uomo della quotidianità, della semplicità, degli affetti che sbocciano ogni giorno come se fossero sempre nuovi e che egli sapeva rivestire di nobiltà attraverso la sua prosa così alta e raffinata. La sua Milano, la Brianza, le memorie, la casa calda e quieta, la compagna unica dell’intera sua esistenza, le due figlie e i due figli erano la sua felicità. In quel testamento ideale ed estremo che è Eschaton, un libretto edito poche settimane prima della morte, c’è un illuminante rappresentazione del Paradiso. In esso si svela la verità suprema di Santucci: la felicità è «capillare», cioè è celata «entro il battere di ogni nostra ora », entro «il respiro delle stagioni, il sapore dell’aria, l’odore delle ore ». L’Inferno del Nulla con le sue orribili vertigini e il Purgatorio, «scandaloso spurgo dell’uomo che ero stato», sono superati proprio dalla scoperta dell’incantesimo della semplicità e delle piccole, quiete e costanti epifanie divine della gioia. È questa la vera beatitudine. Alla radice di questa visione c’è naturalmente la fede di Santucci, una fede tormentata, proprio com’è quella autentica che conosce la salita erta e tenebrosa al Moria o al Golgota. Quanti pomeriggi abbiamo trascorso insieme discutendo di cristologia, quante volte sentivo che le sue domande gli penetravano il cuore, in quante occasioni ci siamo inoltrati sui sentieri d’altura del mistero cristiano! Egli amava l’atmosfera invernale, come attesta fin dal titolo quella sua autobiografia interiore che fu Il cuore dell’inverno. Viveva drammaticamente l’angoscia della morte, a partire da quella della madre, la cui catarsi si era appunto compiuta nell’Orfeo in Paradiso. Il suo credere era un intreccio tra tenebra e luce, tra interrogazione e contemplazione, tra lamento e lode, tra peccato e grazia. Emblematico era stato il romanzo da lui più amato, quel Mandragolo (1979) che una critica miope aveva incompreso (ad eccezione di Chiusano e di pochi altri), come lo era quella sua Vita di Cristo, più volte riedita, che ruotava attorno alla domanda capitale di Gesù: Volete andarvene anche voi?. Vorrei citare un passo illuminante di quest’opera: «Questa storia di Cristo (che è insieme in controluce la mia storia, un’occasione di biografia di me e di tanti altri come me) è nata da due tempi dell’anima, ha dentro due parti. Una florida di fede, dove Cristo è goduto come felice possesso, consolazione e risposta; l’altra invece sotto il segno della problematicità e addirittura nei gorghi della disperazione. Ho voluto lasciare in questo libro le certezze e gli entusiasmi di certe ore cristiane, così come ho lasciato germogliare le erbe del dubbio e dell’angoscia. Grano e zizzania, come sta scritto, nel libero campo della vita». Anche il suo tramonto ha avuto tormento e serenità frammisti, ma l’approdo ultimo è stato nella pace dell’incontro con Dio. Per questo, lo immagino ora con i grandi e cari amici che lo hanno preceduto oltre la soglia del tempo, nella liturgia celeste dell’Agnello: sarà nella «grande nube dei testimoni» (Ebrei 12,1), dei suoi amici intimi, come don Primo Mazzolari e padre Turoldo, Lazzati, Apollonio e Bontadini, don Zeno di Nomadelfia e don Dossetti, padre Balducci, padre Nazareno Fabbretti, don Abramo Levi e altri ancora. In uno dei suoi romanzi, Come se (1973), aveva scritto: «La paura picchiò alla porta. La fede andò ad aprire. Non c’era nessuno». Più in là, però, c’era quel Cristo invisibile, eppur vicino, «che sta alla porta e bussa» e che l’aveva accompagnato per tutta la sua esistenza di uomo, di credente e di scrittore.