Hacca, una piccola casa editrice marchigiana (e prima o poi bisognerà ragionare sulla ricca attività culturale di questa regione...) pubblica una nuova edizione di una raccolta di inchieste degli anni cinquanta di Giovanni Russo,
L’Italia dei poveri (l’utile prefazione è di Giuseppe Lupo), uscita in prima istanza da Longanesi nel 1958. Contemporaneamente Dalai ripropone dello stesso autore la più compatta e classica raccolta delle sue inchieste giornalistiche (apparse soprattutto su «Il mondo» di Pannunzio),
Baroni e contadini, che aveva già "ripescato" nel 1996 e la cui prima edizione la fece Laterza nel lontano 1955, nella gloriosa collana dei "Libri del tempo" in cui apparvero libri di Sciascia e Dolci, Scotellaro e Maria Giacobbe, ma anche di Salvemini ed Ernesto Rossi, Tommaso Fiore e altri "meridionalisti" di primo piano, nonché altre inchieste di punta come
Minatori di Maremma di Bianciardi e Cassola o
Operai del Nord di Edio Vallini. Ma Dalai non si ferma qui, e offre di Russo una nuova raccolta, quella di tutti (o quasi) i suoi interventi sulla figura e l’opera di Carlo Levi, dal titolo
Carlo Levi segreto. Esiste anche un’antologia delle inchieste meridionali di Russo proposta una decina d’anni fa da Avagliano,
La terra inquieta, che aveva per sottotitolo
Memoria del Sud e che fui io stesso a curare. Russo non è più un ragazzo, e quest’improvviso ritorno d’interesse per la sua opera acquista, lo voglia o no, il sapore di un consuntivo, una consegna alla storia della nostra cultura di un mannello di interventi utili a definire un’epoca lontana, ma anche a servire da promemoria in funzione del presente. (Di Russo andrebbero raccolti prima o poi in un solo volume anche i testi più "leggeri", quelli in particolare che ricordano il gruppo del «Mondo» e l’altra figura, con Levi, fondamentale tra quelle con cui ha diviso esperienze e avventure culturali, Ennio Flaiano). Non è infatti che Russo abbia scritto solo del Sud e dei suoi "baroni", dei suoi "contadini", dei suoi intellettuali organici o meno, dei suoi preti, dei suoi politici d’importanza locale o nazionale nonché dei suoi ras e dei suoi prepotenti. Al centro del suo interesse, come dimostra
L’Italia dei poveri, c’è stato anche il Nord, e Milano come Genova, Torino come Venezia, Trieste come Belluno... anche se si trattava di un Nord che era pur sempre quello delle "classi subalterne", come allora le si chiamava, in una situazione economica e sociale assai diversa da quella presente e in anni in cui la miseria andava di pari passo con la speranza, con la prospettiva molto concreta di poterne uscire, anche presto, grazie allo "sviluppo" e grazie alle lotte. Questi libri servono dunque (trovano la loro necessità) per la ricostruzione di un periodo che consideriamo ormai in molti come gli anni più "aperti" e rilevanti della nostra storia unitaria, gli anni in cui, dopo un guerra mondiale e dopo una guerra civile, l’Italia si fece repubblicana e seppe coniugare la pratica della democrazia con gli ideali del progresso, ma anche per il confronto che stimolano con il nostro oggi. Per esempio con la nuova
Italia dei poveri, con i suoi "baroni" sempre attuali e con i suoi nipoti di contadini amalgamati nel gran "generone" di un ceto medio di scarsa coesione e di scarsissima qualità. Insomma, la classe dirigente di ieri ha figliato quella di oggi che non è affatto migliore ed è perfino più avida e certamente più scomposta e volgare, priva delle presenze responsabili che quella aveva, degli Olivetti, ma anche dei Pirelli e dei Mattioli e non solo dei De Gasperi e dei Togliatti, uniti nonostante le differenze nel ripudio del fascismo e nel comune progetto di un Paese migliore. La parola "comunità" era allora molto in uso su molti fronti, e sembra serpeggiare anche nelle pagine di queste vecchie inchieste, in un’ottica sia locale che nazionale. L’ideale di tanti era in definitiva quello di una costruzione variegata in cui le differenze potessero venire sminuite, quelle economiche e di classe, ma anche, quelle culturali e ambientali, potessero venire valorizzate. I "contadini" contano ormai molto poco, ma i "poveri" continuano a essere tanti e non si tratta solo dei nuovi poveri, ma anche, è evidente, dei culturalmente poveri, dei privi di progetto e di solidarietà, di intelligenza della propria condizione e delle sue condanne come delle sue potenzialità. In questo senso, la cultura dell’Italia odierna è certamente molto più "povera" di quella dell’Italia di ieri. Leggere Russo può servirci a capire meglio chi eravamo, ma anche chi siamo, chi siamo diventati. Nell’anno del centocinquantenario dell’Unità, non mi sembra una cosa da poco. E forte è la nostra nostalgia per gli intellettuali alla Levi, il cui percorso Russo ricostruisce con affettuoso e generoso puntiglio, grande nell’arte e grande nel confronto con la storia e la società del suo tempo. Del suo libro più istruttivo e attuale, che considero come uno dei maggiori della nostra letteratura,
L’orologio, fondamentale per capire la nostra storia post-bellica e di dove veniamo, Russo dice che «è l’affresco della società italiana appena uscita dalla guerra, con in più l’intuizione dei contrasti politici fondamentali che avrebbero corroso le istituzioni e bloccato lo sviluppo verso uno Stato veramente democratico».