mercoledì 12 giugno 2024
Nel suo nuovo libro Alessandro Zaccuri presenta esempi tratti da un lungo arco cronologico che da Lucrezio e arriva fino Cormac McCarthy
Alessandro Zaccuri

Alessandro Zaccuri - Giorgio Boato

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Il legame tra letteratura e spiritualità è fortissimo e tutt’altro che casuale, specie all’interno del cristianesimo. Con il suo libro Preghiera e letteratura (Edizioni San Paolo, pagine 159, euro 14,00) Alessandro Zaccuri presenta esempi tratti da un lungo arco cronologico che da Lucrezio e arriva fino Cormac McCarthy, con la convinzione che la letteratura non è ancora preghiera ma di sicuro può aiutare a pregare. Il volume fa parte di una serie di San Paolo dedicata alla preghiera: tra gli altri autori Ciotti, Virgili, Zanchi, Buccioni.

Alonso Chisciano ha deciso: diventerà cavaliere errante. La sua non è follia, checché ne pensino la nipote e il curato e il cerusico del paese. Il Buono (questo, finora, è stato il suo soprannome) farà ingresso in cavalleria seguendo le regole tramandate dai romanzi e dai poemi di cui è lettore instancabile. Prima di tutto, dovrà affrontare la sua veglia d’armi. Per diventare Don Chisciotte, Alonso il Buono dovrà pregare.

L’episodio dell’investitura cavalleresca si trova all’inizio di L’ingegnoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia, che sarebbe il titolo esteso del capolavoro di Miguel de Cervantes (1547-1616). Siamo nel capitolo III della prima parte, pubblicata nel 1605 (la seconda, che l’autore non aveva inizialmente messo in conto, uscirà nel 1615). Don Chisciotte è convinto di aver trovato ospitalità in un ricco castello, governato da un nobile signore e abbellito da un consesso di graziose damigelle, ma in realtà si sta facendo abbindolare dal solito oste senza scrupoli e da una coppia di prostitute. Questa volta, se non altro, l’oste è una persona di spirito e si diverte ad assecondare le manie dello stralunato avventore. Quando Don Chisciotte gli chiede dove si trovi la cappella in cui intende vegliare in vista della cerimonia fissata per la mattina successiva, il finto castellano trova una giustificazione destinata ad avere duraturo successo (non è che la cappella non ci sia, dice, è che la stiamo ristrutturando…) e convince l’impavido ospite a fare le sue devozioni fuori, in cortile, al chiaro di luna: «Riunite tutte le armi in un mucchio sopra una pila accanto a un pozzo, [Don Chisciotte, ndr] imbracciò lo scudo, impugnò la lancia e con dignitoso contegno si mise ad andar su e giù innanzi alla pila; e quando cominciò questo spasseggio, avviava ad annottare».

Lo spettacolo, di per sé ridicolo, suscita un’involontaria ammirazione a causa dell’assoluta serietà con cui il protagonista affronta la prova. L’aspirante cavaliere è talmente determinato da respingere con perdite – relative, ma pur sempre perdite – l’assalto degli inservienti che cercano di raggiungere il pozzo per abbeverare le bestie ricoverate nella stalla. A questo punto, per impedire che la situazione degeneri, l’oste si appella al protocollo d’urgenza. Rivelando una certa dimestichezza con il codice cavalleresco, dichiara sufficienti le ore di veglia sostenute da Don Chisciotte e dispone che l’investitura abbia inizio senza ulteriori indugi: «Il castellano […] andò subito a prendere un libro dove segnava la paglia e l’orzo che dava ai mulattieri, e con un mozzicone di candela che gli reggeva un ragazzo, insieme con le due donzelle che si è detto, tornò dove era Don Chisciotte e gli ordinò di mettersi in ginocchio, quindi, fingendo di leggere nel suo scartafaccio come se leggesse qualche preghiera, a mezzo della lettura alzò la mano e gli dette un sonoro scapaccione, e poi con la sua stessa spada una soda piattonata, sempre borbottando tra i denti come se dicesse le orazioni. Fatto questo, comandò a una di quelle signore di cingergli la spada, ed essa lo fece con molta disinvoltura e con serio contegno; e davvero si dovette contenere non poco per non schiantar dalle risa a ogni particolare della cerimonia, ma con le prodezze che

aveva visto fare al novello cavaliere, ognuno si teneva in corpo la voglia di ridere. Nel cingergli la spada, la brava signora gli disse: – Dio renda la Signoria Vostra cavaliere fortunatissimo e le conceda vittoria nei combattimenti».

Sotto la maschera della parodia, Cervantes sta riproponendo il classico dilemma teologico relativo alla validità di un sacramento amministrato da un sacerdote indegno. Certo, l’investitura cavalleresca non è l’Eucaristia, ma non per questo è scongiurato il rischio della profanazione. Resta il fatto che Don Chisciotte non ha alcun sentore della beffa di cui è vittima, tant’è vero che, a cerimonia finita, partirà per le avventure che conosciamo, fieramente persuaso della sua legittimità di cavaliere.

L’episodio dell’investitura per burla può richiamare alla memoria la novella della Confessione menzognera che troviamo in apertura della prima giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375). Ormai in punto di morte, il losco ser Ciappelletto mette a segno l’inganno supremo della sua carriera di notaio fraudolento, convincendo un povero frate di aver condotto una vita esemplare, nella quale tuttavia, scrupoloso come simula di essere, continua a trovare errori di cui emendarsi. Il religioso accorso al capezzale del moribondo resta talmente ammiratoda chiedergli se acconsenta a essere sepolto in chiesa. […]

Nella mentalità mercantile di ser Ciappelletto, la preghiera è merce di scambio, della quale il truffatore intende servirsi anche dopo la morte per ottenere la rispettabilità di cui non ha goduto in vita. La sua perfidia si spinge al punto da consentirgli di mentire anche quando dice la verità. Chiede al frate il permesso di comunicarsi anche se si ritiene indegno del sacramento (il che è vero) e in questo modo ottiene il viatico che altrimenti gli sarebbe stato negato. L’onere dell’empietà ricade unicamente su di lui e, in questo caso, alla Chiesa non vengono attribuite colpe, se non quella dell’omesso controllo derivante da eccessiva indulgenza. Nel Decameron, come sappiamo, non va sempre così. Se un personaggio può competere in spregevolezza con ser Ciappelletto, questo è frate Cipolla, protagonista di una novella nella quale le parti risultano invertite: l’uomo di Chiesa inganna e i fedeli cadono nel suo tranello.

Anche per quanto riguarda la preghiera e, in generale, la percezione dell’esperienza religiosa, il capolavoro di Boccaccio si pone su un crinale, in modo analogo eppure profondamente diverso rispetto alla Commedia dantesca, della quale lo stesso Boccaccio fu tra i primi e più autorevoli interpreti. Il mondo di ieri sta tramontando, il mondo di domani ancora non è all’orizzonte. Nel Decameron, insomma, c’è già l’intuizione della rivoluzione culturale e spirituale che si manifesterà in tutta la sua violenza all’epoca di Cervantes. Ser Ciappelletto ottiene un’assoluzione autentica ricorrendo alla menzogna, la cerimonia con cui Don Chisciotte viene creato cavaliere è falsa per coloro che la amministrano e vera per colui che la riceve. L’ordine delle cose si è capovolto, il tempo è uscito dai cardini, la Terra non sta più al centro dell’universo, la Chiesa è spaccata al suo interno. Siamo entrati nel tempo della crisi e non ne usciremo tanto presto. A essere sinceri, non ne usciremo più.

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