Francesco Lanzillotta sul podio - Tabocchini
Solitamente un direttore d’orchestra (che in questo caso è anche compositore) preferisce lasciar parlare la musica (quello che vuole dire lo mette nelle note). «Ma questa volta una parola occorreva dirla», racconta Francesco Lanzillotta che l’altra sera, al termine della prima del Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart che allo Sferisterio ha aperto l’edizione 2020 del Macerata opera festival, ha preso il microfono. Fermati gli applausi, il musicista romano, classe 1977, direttore musicale della rassegna marchigiana, ha ringraziato «tutti quelli che hanno creduto e lavorato per la ripartenza della musica dal vivo». Ma ha anche chiesto che in questo momento difficile «il nostro settore venga gestito in modo adeguato». Chiaro monito alla politica. Perché «quando si ferma lo spettacolo non si chiude solo un teatro per gli spettatori, ma a fermarsi è un mondo fatto di musicisti, di tecnici, di lavoratori dei laboratori…».
Un mondo che sta provando a ripartire dopo i mesi di chiusura forzata. Che effetto le ha fatto tornare sul podio, Francesco Lanzillotta?
Ero tesissimo. E non solo io. Ma era quella tensione positiva che serve per concentrarsi e dare il meglio. La sensazione che ho avuto è la stessa di quando, affamato, trovi una tavola ben imbandita e ti ci butti con grande foga per saziare la fame. Sentivo un desiderio di buttarmi sulla partitura e divorarla, per riscoprire il piacere di fare musica dal vivo dopo tanto digiuno. Certo, le condizioni in cui sta avvenendo questa ripartenza non sono ideali, ma si resiste e si superano le difficoltà.
Orchestra distanziata, distanze anche sul palco con i cantanti che non interagiscono: è stato difficile?
Il primo giorno di prove è stato straniante. Certo, questa deve essere una situazione per far fronte all’emergenza, non deve diventare la normalità perché in questo frangente stiamo facendo il melodramma in un modo diverso da come è stata codificata nei secoli: non perché siamo riusciti a fare l’opera in queste condizioni dobbiamo pensare che si farà sempre così.
Nel pieno dell’emergenza sanitaria era quasi impossibile pensare di realizzare quest’anno i festival estivi. Quando avete capito che avreste potuto riaprire le porte dello Sferisterio?
In realtà abbiamo sempre pensato di andare in scena, anche nel periodo più difficile dove non sembrava esserci una prospettiva. Pensavamo che se fossimo stati costretti a cancellare le opere in cartellone avremmo potuto realizzare concerti per poche persone nei cortili di Macerata, per dare un segnale e garantire una presenza artistica sul territorio. Poi con l’allentamento delle restrizioni e il cambio delle regole abbiamo capito che si poteva fare il festival. Certo, abbiamo dovuto correggere il tiro, abbiamo cancellato Tosca e optato per la versione in forma di concerto del Trovatore perché i tempi erano troppo stretti per riaprire i laboratori per realizzare le scenografie e i costumi di tutti gli allestimenti.
Solo Don Giovanni è rimasto in forma scenica, tutto giocato dal regista Davide Livermore sulle proiezioni.
Quello che non si può fare sul palco per le regole di distanziamento viene fatto nelle proiezioni che invadono il grande muro dello Sferisterio. Musicalmente ho pensato a un Don Giovanni a tinte forti, pieno di colori, per dare l’idea di tutte le sfaccettature del protagonista e della sua natura ambigua e sfuggente.
Perché, anche con un cartellone ripensato, è importante esserci in questa strana estate musicale?
È importante dire che il nostro è un settore che non si arrende. Sarebbe un pessimo segnale in questo momento cadere in ginocchio e non rialzarsi, tanto più che il nostro è un ambito in crisi da tempo. Tutti per quello che possono, grandi festival o piccole rassegne, devono farsi sentire e provare ad andare in scena con qualcosa per dire che siamo vivi.
Ha perso molti contratti in questi mesi?
Mi sono saltate quattro produzioni. Ma per fortuna l’agenda si è già tornata a riempire: dopo l’estate mi aspettano Un ballo in maschera di Verdi a Budapest, Aida a Sidney e L’amico Fritz di Mascagni a Erl.
Come ha trascorso questi mesi senza musica dal vivo?
Ero in Spagna per lavoro e sono riuscito a rientrare a Roma prima che chiudessero tutto. Sono stato con mia moglie e le nostre due figlie. Ho studiato Don Giovanni, ho scritto molta musica dato che, prima di essere direttore d’orchestra, sono compositore: ho lavorato in particolare a un progetto per Bruxelles su Gaetano Donizetti. E poi ho fatto tutti quei lavori legati alla terra – il giardino, l’orto, la cura delle piante – che mi appassionano da sempre.
Anche la musica la appassiona da sempre?
Direi di sì. Ho iniziato lo studio del violoncello a sei anni, ma ho sempre avuto la passione per la scrittura e a tredici anni sono passato al pianoforte per poter studiare composizione. In parallelo volevo anche dirigere i miei lavori e allora mi sono diplomato in direzione d’orchestra sempre al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. Ma ho sempre frequentato tutti i generi di musica: a vent’anni facevo piano bar negli alberghi della Capitale, ho suonato in un gruppo rhythm and blues, ho diretto musical come Hair e Jesus Christ superstar e ne ho scritto uno ispirato al Candido di Voltaire. Ho scritto molto anche per la danza e durante l’allestimento di un balletto per il quale avevo composto le musiche ho conosciuto mia moglie che era ballerina. Essendo stata artista comprende la mia vita in giro per il mondo: certo non è facile stare lontano da lei e dalle bambine, tutti soffriamo, ma quando torno e non lavoro stiamo insieme ventiquattr’ore su ventiquattro.
Dal piano bar e i musical alla classica… come è stato il salto?
Il 2005 è stato l’anno della svolta con la vittoria al concorso di composizione Valentino Bucchi: ero proiettato a fare il compositore, ma continuavo anche a fare concerti e gli impegni si moltiplicavano. Erano gli anni della crisi legata ai mutui subprime e i teatri, un po’ per contenere i costi e un po’ per scommessa, ingaggiavano molti direttori giovani, non ancora trentenni: tra quelli c’ero anch’io e oggi siamo in molti direttori tra i 40 e i 45 anni a venire da quell’esperienza che ci ha forgiato consentendoci di dirigere molto da subito. I miei modelli? Claudio Abbado e Carlos Kleiber. Oggi apprezzo Daniele Gatti.
Da ragazzo ha anche fatto il calciatore.
Tra i dieci e i vent’anni giocavo nella Roma20 e ho militato anche nella categoria Allievi regionale. E anche terminata questa esperienza mi sono sempre allenato almeno due volte la settimana. Tifo Roma, ma è almeno cinque anni che non vado allo stadio.