Boccaccio è considerato il fondatore della prosa italiana. Ma non è questo il suo unico merito. La sua figura è fondamentale per la letteratura italiana nel complesso periodo che conduce dal tardo Medioevo all’Umanesimo. Anzi, potremmo dire che l’opera di Boccaccio rappresenta, nei riguardi della cultura, uno dei più stretti legami tra Medioevo e Rinascimento. Nei suoi testi egli fissa i valori tipici della cultura cortese (gentilezza, lealtà, magnanimità, valore ecc.), trasferendoli nel nuovo contesto sociale e proponendoli agli emergenti ceti borghesi. Del mondo cortese, del resto, egli aveva fatto ampia esperienza a Napoli, nell’entourage di Roberto d’Angiò. Ma come era arrivato lì, lui nato nel 1313 in Toscana (non è certo se a Firenze o a Certaldo), figlio naturale di un ricco mercante, Boccaccino di Chellino, e di una donna non identificata? Il padre, che lo riconosce, lo accoglie in casa propria e lo fa studiare, voleva avviarlo al suo stesso lavoro. Scriverà anni dopo (nel De geneaologia deorum gentilium): «Mio padre fece ogni tentativo, sin dalla mia fanciullezza, perché diventassi mercante. Mi affidò come discepolo a un grande mercante, presso il quale per sei anni nul-l’altro feci che consumare invano tempo non recuperabile». Perché - topos ricorrente nelle biografie di tanti scrittori - la vera vocazione si profila presto essere quella della letteratura.
Nel 1327 il padre porta Giovanni con sé a Napoli, dove si era trasferito come rappresentante della compagnia dei Bardi, potenti banchieri fiorentini. Sperava così che il figlio, attraverso la pratica, si appassionasse al mondo della finanza, degli affari e dei commerci. L’interesse per la letteratura avrà però definitivamente il sopravvento. Quelli napoletani sono infatti anni di intense letture: i classici latini e greci (questi ultimi in traduzione perché, come Dante, Boccaccio non imparò mai il greco), all’epoca base culturale imprescindibile; la produzione cortese-cavalleresca, ampiamente diffusa e coltivata nella raffinata corte angioina; ma anche l’opera dantesca, scritta in quel volgare che andava allora affermandosi nella poesia. A Boccaccio toccherà in seguito, nel Decameron, codificare in volgare la prosa letteraria.
Bene accolto a corte, stringe amicizia con personalità importanti (scienziati, giuristi e teologi), ma condivide anche la vita spensierata ed elegante dei giovani aristocratici suoi coetanei, che, non badando alle differenze sociali, lo considerano uno di loro. Il soggiorno napoletano è dunque importante, perché consente allo scrittore un’osservazione attenta della varia umanità presente nella città campana, un’umanità che, sempre nel Decameron, Boccaccio saprà rappresentare nelle sue diverse componenti sociali: nobiltà, borghesia, popolo. A Napoli Boccaccio incontra una donna, che indicherà con lo pseudonimo di Fiammetta. Tale incontro è descritto nel Filocolo prendendo a modello il racconto di quello tra Dante e Beatrice nella Vita nuova. Boccaccio nota Fiammetta in una chiesa e subito se ne innamora: la «mirabile bellezza» della donna genera in lui un «tremore» che inizialmente lo spaventa assai, finché accetterà di buon grado la «servitù d’Amore». Ma chi è Fiammetta? Questa affascinante donna bionda, che a un certo punto entra prepotentemente nei sogni di Boccaccio, è realmente esistita oppure si tratta di un parto della sua immaginazione? Al 'mito di Fiammetta' è dedicato l’ultimo saggio di Marco Santagata, Boccaccio indiscreto (Il Mulino, pagine 200, euro 19), che getta nuova luce sugli anni napoletani dello scrittore, portando informazioni inedite per una corretta collocazione cronologica delle opere di questo periodo: la Caccia di Diana, il già citato Filocolo, il Teseida.
I biografi in passato l’hanno identificata con una certa Maria, una figlia naturale di re Roberto d’Angiò. Sposata giovanissima a un conte d’Aquino, per la sua bellezza e per il suo carattere brillante, sarebbe stata al centro della vita mondana della corte di Napoli. Eppure nessun documento attesta l’esistenza di tale Maria d’Aquino. Il mistero rimane dunque fitto. Tuttavia, al di là della possibilità di dare un nome preciso a questa donna, se vogliamo credere a quanto scrive Boccaccio nelle sue opere, Fiammetta fece innamorare di sé il giovane letterato, che la incontrò un Sabato Santo nella chiesa napoletana di San Lorenzo. E fu subito colpo di fulmine. In che anno? Anche le opinioni sulla data sono contrastanti: chi dice nel 1331, chi nel 1336. Comunque, da quel momento in poi, Boccaccio comincia a corteggiarla scrivendo versi per lei. A partire dall’ottobre successivo a quel primo incontro primaverile, Fiammetta pare cominciasse a ricambiare il sentimento dello scrittore, così colmandolo di gioia. Dopo tre anni, però, l’amara delusione: Fiammetta si rivela una persona volubile e abbandona Boccaccio per un nuovo amore. Lui non si arrende: continua a scrivere, aspettandola, nella speranza che essa si decida a tornare da lui.
Poi l’improvviso ritorno a Firenze nel 1340, in seguito alla crisi della compagnia dei Bardi, rende concreta e irrimediabile la frattura della loro relazione. Con l’Elegia di madonna Fiammetta l’addio è definitivo; le parti vengono scambiate (è lei a essere tradita, mentre lui diventa freddo e distaccato), e questa inversione dei ruoli rappresenta per Boccaccio l’unico risarcimento possibile, per via letteraria, alla sua delusione. Si interrompe così per lo scrittore, all’età di 27 anni, il periodo allegro e spensierato nella città partenopea. Lì continuerà a sperare, negli anni successivi, di poter tornare stabilmente, magari in virtù di un eventuale incarico presso la corte degli Angiò. Ma tale speranza andrà frustrata. E la Firenze borghese, dopo la Napoli cortese, diventerà la sua stabile dimora, fondale di molte delle pagine più riuscite di quello che sarà il suo capolavoro, il Decameron.