sabato 21 novembre 2020
Disponibili sul sito di Rai Radio 3, 5 podcast sul lavoro del laboratorio di antropologia forense di Milano, dal dramma di Linate al naufragio del 18 aprile 2015 in cui morirono 1100 migranti
Nella quarta puntata di Labanof l’esame sui corpi dei martiri di Milano, San Nazario e san Gervasio e Protasio

Nella quarta puntata di Labanof l’esame sui corpi dei martiri di Milano, San Nazario e san Gervasio e Protasio

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«Che cosa vuol dire cercare di dare un’identità a quelle che sono le vittime di un naufragio? La risposta è: dobbiamo farlo perché sono i diritti di tutti. Diritto alla salute e diritto all’identità dei miei morti perché mi serve per continuare la mia vita, è una questione di salute mentale di chi sta cercando il suo morto e una questione di banale vita amministrativa. Quindi è una questione di diritti umani. Di cose che dovrebbero essere obbligatorie ». Medico e antropologo, Cristina Cattaneo è l’anima del Labanof, l’acronimo del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense, da lei fondato a Milano assieme al suo mentore Marco Grandi nel 1995. Il loro lavoro verrà raccontato da Labanof. Corpi senza nome , il primo podcast originale prodotto interamente da Rai Radio3 e verrà rilasciato online sul sito della radio il 23 novembre in occasione dei 25 anni di vita del laboratorio.

Questa serie di cinque puntate, che ha vinto il recente Prix Italia nella sezione documentari, ci fa entrare in un luogo inaccessibile dove ogni giorno la professoressa Cattaneo con odontologi, biologi, archeologi e antropologi, lavora per restituire un’identità a chi, morendo, l’ha persa. «Tutto nasce dai resti umani. Dal corpo e dallo scheletro che continuano sempre a raccontarsi e possono restituire a noi la storia del loro passato» aggiunge la Cattaneo nella serie di audiodocumentari che presentano testimonianze dei suoi colleghi, spezzoni di tg e gr d’epoca la voce narrante dell’attore Vinicio Marchioni. Il Labanof è un luogo dove la scienza ci aiuta a restare umani. È questo il punto da cui è partita Rossella Panarese, capostruttura della rete, autrice e conduttrice di Radio3 Scienza, che ha avuto l’idea di far entrare il pubblico nei meandri dell’istituto, «raccontando con la discrezione tipica della radio quello che con le immagini sarebbe stato impossibile mostrare»: la dottoressa Cattaneo e i suoi colleghi raccontano la propria professione attraverso la ricostruzione di fatti di cronaca e aneddoti dei 25 anni di vita del laboratorio.

«Stavo leggendo il libro Volti senza nome della professoressa Cattaneo - spiega ad Avvenire la Panarese - . Lei ha portato n Italia una medicina legale innovativa e fortemente legata ai valori etici: per lei accudire i morti è prendersi cura dei vivi. Devo ringraziare il direttore di Rai Radio 3 Marino Sinibaldi che ha avuto la lungimiranza di accogliere questa idea. Il servizio pubblico deve avere il coraggio di raccontare la realtà». Al progetto hanno lavorato per un anno le autrici Fabiana Carobolante, Daria Corrias, Giulia Nucci. La prima puntata si intitola Labanof, corpi senza nome da una pista da volo: nel 2001 un aereo di linea in partenza da Milano e diretto a Copenhagen si scontra con un piccolo jet privato prima del decollo. Quel giorno muoiono 118 persone. È il più grave disastro aereo della storia d’Italia. È anche il primo disastro di massa che il team Labanof ha dovuto affrontare. In casi come questo, l’odontologo è uno dei più importanti specialisti sul campo, come ci racconta il dottore Danilo De Angelis presente a Linate. Nel secondo episodio, Labanof, corpi senza nome da un posto qualunque, Davide Porta, il ricostruttore facciale del labo- ratorio, mostra come è possibile dare un nome agli sconosciuti mentre nel terzo episodio Labanof, corpi dal sottosuolo, lo specialista è l’archeologo. Dominic Salsarola ci racconta il caso delle bestie di Satana.

Affascinante il tema della quarta puntata Labanof, corpi senza nome dal passato dove la dottoressa Cattaneo ricorda l’esame sui corpi dei martiri di Milano, San Nazario e soprattutto san Gervasio e Protasio i due grandi martiri trovati da Sant’Ambrogio. I segni della violenza e della prigionia confermano che si tratta di autentici martiri, «la scienza e la fede si sono prese a braccetto e hanno lavorato insieme. I milanesi riconoscono le radici della loro fede qui, ma scoprire che queste radici sono solide è stato fondamentale» aggiunge monsignor Carlo Faccendini, abate di Sant’Ambrogio. I segni della tortura per questioni di fede sui corpi di questi 18enni del terzo secolo dopo Cristo, aggiunge la Cattaneo, fanno venire alla mente i segni sulla pelle dei rifugiati di oggi.

E proprio ai tanti che perdono la vita nel Mediterraneo, è dedicato il quinto, fortissimo episodio: Labanof, corpi senza nome dal fondo del Mediterraneo. Nel giugno 2015 una telefonata ha messo il team degli studiosi davanti alla sfida più grande mai affrontata: il naufragio del 18 aprile 2015, una delle peggiori tragedie del Mediterraneo. A loro è stato affidato il compito di dare un nome a ciascuna delle vittime. Impegnate in questo lavoro di identificazione fin dall’inizio e nella missione che tuttora li vede coinvolti nello studio dei resti e degli effetti personali dei naufraghi, sono due delle antropologhe del Labanof, Francesca Magli e Debora Mazzarelli. E con la tragedia di Melilli si racconta un’altra loro battaglia, perché restituire un’identità a tutti i morti sconosciuti, senza distinzione di provenienza, è l’obiettivo. Non solo per ridare loro una dignità, ma soprattutto per offrire risposte a chi rimane. Il peschereccio eritreo giace a 370 metri profondità a 70 km dalle coste libiche, finché nel 2016 il premier Matteo Renzi dà il via al recupero del barcone, non senza polemiche, in cui si pensa siano affogate 200 persone contro 28 superstiti. Al Porto di Augusta lavoreranno ben 150 tra medici e scienziati per ridare un nome, invece, a ben 1100 cadaveri.

La commozione del ricordo fa tremare la voce di Cristina Cattaneo: «Quando sono entrata nel barcone, avevo tentato prima di immaginarmelo, ma non c’era paragone. Dovevi camminare sui morti che riempivano la stiva a strati. Ho affondato il braccio, e sotto sentivo ancora carne umana». «I cadaveri erano quasi interi, ragazzi alti, robusti, 18enni, maliani senegalesi. Avevano nelle tasche dei pacchettini, pensavo fosse droga: invece erano sacchetti della loro terra portati via per ricordo. E’ stata una rivelazione - si commuove la dottoressa ricordando le sue stesse emozioni e i suoi stessi gesti di bimba emigrata in Canada - Erano persone che non avevano più caratteristiche umane, sentivi quanto doppiamente fossero vittime di una tragedia, la prima di avere fatto quella fine lì, la seconda di essere dimenticati da tutti. Chissà quanti altri giacciono sul fondo del mare. Tutti dovrebbero vedere quegli spazi». Tutti i resti sono conservati al laboratorio di antropologia forense di Milano e i lavori per dare un nome continuano per garantire non solo i diritti dei morti, ma anche quelli dei vivi, persone le cui vite restano sospese anche dal punto di vista burocratico come orfani e vedove. Dal 2013 al 2019 le vittime ufficiali nel Mediterraneo sono oltre 20mila, e l’Europa non si è ancora dotata di un protocollo unico di identificazione dei cadaveri dei naufraghi, conclude il podcast. E i barconi continuano ad affondare nei nostri mari.

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