Una veduta di istanbul - Svetlana Gumerova/Unsplash
Presente già nella mitologia classica e da lì in Shakespeare e in tanta altra letteratura, il tema della dedizione paterna per la figlia assume una connotazione ulteriore nella tradizione narrativa dell’Ottocento, segnalandosi come forma esemplare di amore di elezione. È il legame che nei Miserabili unisce Jean Valjean a Cosette. Ed è, nei Promessi Sposi, il segno più evidente della conversione dell’Innominato, che ricolma di attenzioni e tenerezze (fino a chiamarla «la mia Lucia») la stessa ragazza di cui avrebbe dovuto essere l’aguzzino. La situazione si ripropone in Pietra e ombra, il nuovo romanzo di Burhan Sönmez, ora tradotto da Nicola Verderame per Nottetempo (pagine 368, euro 18,50), che ha in catalogo tutti i titoli precedenti dello scrittore turco. In un certo senso, qui siamo a metà strada fra Manzoni e Hugo: la giovane Reyhan è in fuga dalla prigione in cui è stata rinchiusa e abusata durante le sollevazioni popolari del 1985, ma l’anziano e solitario Avdo, che le offre rifugio nella sua casupola, è un giusto perseguitato, non un manigoldo in via di redenzione.
Questa volta, insomma, Lucia è tratta in salvo da Jean Valjean, e poco importa che, al posto di visitare il castello dell’Innominato o frequentare i parchi di Parigi, il lettore sia invitato a sostare tra le lapidi del cimitero di Merkez Efendi, a Instanbul, dove Avdo si guadagna da vivere con il suo lavoro di intagliatore di pietre. Ha imparato il mestiere da bambino, per sottrarsi all’altrimenti disperata condizione di orfano, e lo ha esercitato con maestria di villaggio in villaggio, entrando in contatto con l’indecifrabilità dell’identità nazionale turca. Che non esiste in quanto tale, lascia intendere Sönmez, essendo piuttosto il risultato di appartenenze diverse sul piano etnico, religioso, linguistico e culturale. Di modo che, si potrebbe aggiungere, l’esemplare più caratteristico della nazione è rappresentato proprio dallo sfuggente personaggio dell’Uomo dai Sette Nomi che, dimentico di sé, ha vissuto nel tempo esperienze discordanti, senza mai ritrovare del tutto l’origine perduta. Se non si può tornare al principio, si può sperare almeno di arrivare a una conclusione. A questo è appunto chiamato a provvedere Avdo, il cui debito verso l’Uomo dai Sette Nomi dovrebbe estinguersi con l’allestimento di una perfetta lapide mortuaria. Solo che l’ispirazione per il capolavoro tarda a manifestarsi e, nell’attesa, il destino torna a riproporsi sotto le fattezze emaciate di Reyhan, che per Avdo si rivelerà persona meno ignota di quanto si potrebbe immaginare.
Non è difficile riconoscere in Pietra e ombra le tracce della vicenda biografica dello stesso Sönmez, nato nel 1965 da famiglia curda in un villaggio della provincia di Ankara. Giurista di formazione, si è imposto nel 2015 con il romanzo Istanbul Instabul, vive in Gran Bretagna da più di vent’anni ed è l’attuale presidente internazionale del Pen Club. Un profilo complesso, che conferisce alla sua opera una profondità inusuale. Nello specifico, la trama di Pietra e ombra si struttura per piani temporali differenti, ricondotti a unità solo dallo sguardo del narratore. Nel lungo periodo che va dalla fine degli anni Trenta e l’inizio dei Duemila, Avdo diventa testimone involontario ma non recalcitrante delle vicissitudini del suo Paese, in un continuo intrecciarsi di rivoluzioni mancate e feroce persistenza della mentalità tribale. Cambiano le situazioni e intanto si ripetono i nomi dei personaggi, trasmessi di generazione in generazione in segno di ribellione e di speranza. Meglio: in quella specifica forma di insurrezione morale che è la speranza. Così non muore per sempre Baki, il giovanissimo amico che era rimasto ucciso nella faida scatenata dall’amore di Avdo per la sventurata Efil. Il suo nome passa al figlio che Reyhan porta in grembo quando viene adottata da Avdo e sarà proprio questo Baki redivivo a recuperare il filo di un altro nome, Miskal, che rimanda al mistero dell’Uomo dai Sette Nomi.
Sönmez è abilissimo nel saldare tra di loro episodi distanti nel tempo, ma intimamente accomunati da un gioco di rispondenze delicate e tenaci, come l’arte praticata da Avdo. Perché la pietra è dura e resistente, ma può bastare un colpo di scalpello assestato in modo maldestro per mandare tutto in frantumi. Il vero impegno, dunque, sta nel mantenere intatta la pietra, non nello scalfirne la superficie. Non diversamente da ogni altra disciplina, anche quella praticata da Avdo ha una dimensione spirituale, è un’attitudine quasi monacale e senza dubbio mistica che, al momento opportuno, rende il protagonista disponibile all’accoglienza incondizionata e paterna. Anche Avdo, però, ha il suo doppio speculare. Si tratta del Marinaio Biondo, che in modo tanto imprevedibile quanto puntuale si ripresenta nel microcosmo del cimitero per raccontare le sue avventure. L’impressione è che uno non potrebbe esistere senza l’altro. Ci vuole l’anima di un viaggiatore per addentrarsi dentro sé stessi, ma se non si avesse la percezione di quel segreto interiore non ci si metterebbe neppure in viaggio. Il resto lo fanno i nomi, lo fa il destino. Più che altro, lo fa la pietra, che prende parola sotto la mano sicura del lapicida.