L'economista Noreena Hertz - WikiCommons
Aggirandoci per un qualsiasi supermercato, tra il reparto della frutta e quello della verdura, se ci fermiamo a guardare con un minimo di attenzione, ci imbattiamo nelle monoporzioni. Se ci guardiamo intorno, tra chi in questo momento lavora da casa e chi, da libero professionista, lavora in autonomia, vediamo un enorme gruppo di persone sole. E poi, nel tempo libero, ci sono i social, che come ha detto Jacopo Franchi (autore di Solitudini connesse, Agenzia X editore) in un’intervista su Avvenire di un paio d’anni fa, danno la «possibilità di osservare gli altri a distanza di sicurezza». Il XXI secolo è Il secolo della solitudine, spiega l’economista Noreena Hertz in un libro da poco uscito per il Saggiatore (pagine 410, euro 25,00) proprio con quel titolo.
Ma che cos’è esattamente la solitudine?
La solitudine rappresenta il sentimento di sentirsi disconnessi, invisibili, irraggiungibili e affamati di connessione. È fatta del desiderio di incontrare. Anche prima della pandemia si registrava che un adulto su dieci si sente spesso solo, un millennial su cinque affermava di essere spesso solo e diceva di non avere amici.
Le ragioni?
Urbanizzazione di massa, svuotamento delle campagne, sentimento di abbandono nelle città dove si è circondati da persone che non si conoscono; più persone che vivono sole, meno partecipazione politica, meno tempo per mangiare in famiglia; armi di distrazione di massa che rubano la nostra attenzione e la presenza dei social media, che hanno grande responsabilità nella generazione di solitudine nei giovani. Ma credo giochi un ruolo anche un’attitudine liberale che porta a concepirsi più come competitivi che collaborativi, possessori anziché donatori, focalizzati al successo più che verso gli altri, più inutili che d’aiuto.
Si può dire la solitudine influenzi le democrazie?
Ho ravvisato che c’è un chiaro legame tra solitudine e ascesa del populismo di destra. Lo vediamo in molti aspetti, ma in particolare sappiamo che i voti populisti di destra arrivano da chi si sente solo, nel senso di avere meno amici, meno persone su cui fare affidamento, debole supporto sociale. Ma vive anche nella dimensione del sentirsi dimenticato, invisibile e ignorato. L’idea che il mondo sia un luogo minaccioso gioca un ruolo cruciale nella trasformazione di queste comunità in luoghi militanti.
Qual è il ruolo di internet in queste solitudini, specialmente per come sta cambiando per esempio con il metaverso?
I social agiscono come vettore di esclusione. I giovani raccontano di un sentimento di solitudine che cresce insieme ad un sentimento di inadeguatezza, il quale a sua volta nasce dal confronto con i post online dove tutti sembrano sempre più popolari, si divertono di più e con più amici. Alcuni raccontano di abusi vissuti online e su Facebook. Uno studio di Standford ha evidenziato come su 500 studenti che utilizzavano Facebook abitualmente, in seguito ad un’interruzione di due mesi si sentissero più felici e meno soli.
Psicoanalisti come Klein e Winnicott hanno parlato di 'solitudine depressiva' e 'solitudine evolutiva'. Siamo in grado di cogliere questa differenza oggi, pensando all’isolamento riflessivo, ma anche agli hikikomori?
Oggi conosciamo bene la differenza tra solitudine depressiva e mentalità solitaria, che sottendono una grande differenza rispetto a quanto l’essere soli è voluto e attivamente ricercato o quanto invece è alimentato da una brama di connessione e dalla sensazione di non essere visti. Si può amare lo spendere del tempo da soli e allo stesso tempo soffrire il sentimento di solitudine in mezzo ad una folla.
E come ci si riconnette? Come si ritrova un senso di comunità?
Non bastano i microscambi, il modo più efficace per connettersi con le persone è fare cose con le persone, condividere attività e passioni, trasmettere le tradizioni tra generazioni, culture ed etnie diverse. Abbiamo però anche bisogno che le città siano disegnate per favorire queste attività, con la creazione di spazi dove creare e progettare insieme.