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In diversi Paesi occidentali (Canada e alcuni degli Stati Uniti) si registra da qualche anno un ritorno all’insegnamento della scrittura corsiva a mano nella scuola primaria. Dagli anni Ottanta in poi, sulla spinta di dottrine pedagogiche più o meno salde, la scrittura corsiva fu abbandonata e sostituita con la pratica del maiuscoletto (detto familiarmente stampatello), un “glifo” preso in prestito dalla tipografia. Al maiuscoletto si attribuivano diversi vantaggi: una maggiore facilità di apprendimento, perché permette di saltare la lunga serie di passi grafici (le aste, i tondi ecc.) necessari per imparare la scrittura corsiva, e una maggiore velocità di esecuzione.
Inizialmente l’obiettivo era di usarlo nei primi anni dell’apprendimento, con l’intento di passare più tardi al corsivo. Nondimeno, come mi ha fatto notare Franco Lorenzoni, maestro elementare di grande esperienza e autore di libri di culto nell’ambiente della scuola primaria (come Educare controvento, Sellerio), «un discreto numero di maestre e maestri hanno rimandato di anni e in alcuni casi rinunciato a insegnare lo scrivere in corsivo», lasciando che il maiuscoletto rimanesse il solo praticato, come mi è capitato di riscontrare presso i miei studenti universitari sin dalla fine degli anni Ottanta.
Più di recente, l’universale diffusione di strumenti di scrittura a tastiera (computer, tablet, smartphone) ha scompigliato le carte, spingendo ad accantonare anche il maiuscoletto: i bambini imparano spesso a scrivere direttamente digitando su una tastiera. Se poi devono proprio scrivere a mano qualcosa, lo fanno in maiuscoletto, ma la frequenza dell’uso di tastiere rende gradualmente marginale (oltre che ingrato) anche questo compito. Non è più la mano intera che lavora, ma solo le dita, e solo con la punta.
In un’epoca come la nostra, tra guerre e disordini geopolitici catastrofici, occuparsi delle prime fasi della scrittura può sembrare un intrattenimento superfluo. Ma non è così. Tutto ciò che riguarda la scrittura va guardato con estremo rispetto. La scrittura, pur essendo relativamente recente (i suoi inizi non risalgono a molto più di 5.000 anni fa) è infatti una delle nostre invenzioni più insigni e potenti, perché ha permesso una quantità di acquisizioni di cui la specie umana si è enormemente avvantaggiata: dalla trasmissione e conservazione di informazioni alla letteratura, dalla registrazione di proprietà e oggetti alla messa per iscritto della matematica e di altri codici simbolici. Col tempo la scrittura ha preso tale importanza che, nella modernità, l’alfabetismo (che l’inglese chiama più espressivamente literacy “capacità di scrivere le lettere”) è uno degli indicatori primari del grado di sviluppo culturale e civile sia del singolo che di un intero Paese.
Come tutte le invenzioni simboliche, però, la scrittura è fragile. Per questo, non sorprende che, a dispetto dell’importanza che ha assunto nella storia, sia stata colpita in pieno dall’avvento del digitale (quel che io chiamo di solito “mediasfera”), considerato che a quel mondo si accede quasi solo scrivendo su una tastiera. Le pratiche di scrittura ne sono state rimodellate alla radice. Tutti oggi scrivono sin dall’infanzia su qualche device (smartphone, pc, tablet ecc.), al punto da dar luogo a uno dei paradossi più singolari della nostra epoca: sebbene nella storia non si sia mai scritto tanto, il dominio della scrittura (in tutti i suoi sensi) non si è affatto consolidato. È solo per una sorta di inerzia lessicale che continuiamo a chiamare “scrittura” un comportamento che non somiglia in nulla a ciò che, nel tempo, si è indicato con questo termine. Per questo, se si torna a discutere di scrittura a mano e in qualche paese si torna ad adottarla come forma primaria di apprendimento, è importante capire che cosa questo significhi.
È utile ricordare che le invenzioni culturali come la scrittura (e la lettura) si basano su meccanismi cerebrali che si erano evoluti per tutt’altri scopi, ma che, avendo un certo margine di plasticità, si sono riconvertiti alle nuove funzioni. Lo stesso adattamento ha avuto luogo per il linguaggio: l’organismo umano non aveva nessun circuito neuronale o apparato dedicato per parlare, eppure Homo sapiens parla. Stanislas Dehaene (del Collège de France), uno dei più brillanti neuroscienziati europei, ha chiamato questo fenomeno “riciclaggio neuronale”. Il riciclaggio non ha funzionato però solo per i neuroni, ma anche per la dimensione motoria: neppure la mano era originariamente fatta per muovere uno stilo su un supporto piano, ma per prendere, manovrare, tirare, avvitare, stringere ecc., oltre che per percepire attraverso il tatto. Adattandosi alla nuova funzione, tutte le sue ventisette ossa lavorano per eseguire la scrittura, ma senza rinunciare alle loro funzioni evolutivamente primarie.
Insomma, la scrittura a mano non comporta solo l’attività e l’allenamento di particolari strutture neuronali, ma anche uno speciale lavoro delle diverse parti della mano. Ciò vale in particolare per la scrittura corsiva, che nella tradizione italiana (e di altri Paesi) si presenta nella forma del corsivo inglese: lettere con curve, anelli, spigoli, riccioli, che possono sporgere sul rigo verso l’alto e verso il basso e che, soprattutto, si legano tra di loro mediante tratti appositi (le legature). La mano deve scorrere fluidamente, seguendo il rigo e attenendosi ai bordi, controllando la pressione, interagendo con la vista, imparando così gradualmente movimenti dedicati sempre più fini. Queste operazioni sono ovviamente complesse e, come ho accennato, richiedono un lungo processo preparatorio. Ma questo sforzo paga: in questo modo il piccolo umano acquista capacità anche in altri ambiti.
La scrittura manuale è infatti collegata con altre pratiche fini, che il bambino ha bisogno di acquisire sin dai primi anni. Comporta per esempio la capacità di maneggiare gli attrezzi connessi con lo scrivere: penne, gesso, gomme da cancellare, colla e forbici. Franco Lorenzoni mi ha ricordato che con la scomparsa della scrittura corsiva «bambine e bambini hanno disimparato ad allacciarsi le scarpe, ma in questo caso l’industria ha provveduto fornendo a loro e ai loro genitori scarpe che si chiudono a strappo».
A un livello più alto, alcune tradizioni di scrittura mostrano il continuum tra la scrittura a mano e il disegno. Così nella tradizione araba, l’alfabeto permette legature e fitti intrecci di caratteri, anche di grandi dimensioni, tanto da poter essere adoperate come decorazioni di monumenti. Nella tradizione giapponese, legata a una lingua non alfabetica, l’arte della scrittura (lo shodō “via, metodo della scrittura”) può essere praticata da esperti calligrafi anche in piedi, muovendo verticalmente un lungo pennello sul foglio poggiato in terra.
I collegamenti sono quindi fitti e ramificati e riguardano tanto i livelli pratici del vivere quanto le funzioni superiori. Gli studi di Hetty Roessingh e collaboratori (University di Calgary, Canada) hanno messo in evidenza che la scrittura corsiva a mano interagisce in modo significativo con diverse attività cognitive: per esempio favorisce nell’infanzia testi scritti di migliore qualità e realizzati con maggior fluidità. Benché lenta, di faticosa acquisizione e implicante controllo costante, la scrittura corsiva a mano porta troppi vantaggi per lasciarla scomparire. Sarà bene pensarci anche in Italia.