Augusto Passaglia, “Re Salomone”. Firenze, Santa Maria del Fiore - WikiCommons
Pubblichiamo l'introduzione del volume di Gianfranco Ravasai Sapienza di Salomone pubblicato da il Mulino.
Nella mappa del tempio erodiano di Gerusalemme, frequentato anche da Gesù, e demolito nel 70 d.C. dalle legioni romane guidate da Tito, il futuro imperatore dal 79 all’81, era perimetrato uno spazio esterno denominato il «Cortile dei Gentili», ossia degli “etnici”, i gojîm per gli Ebrei. A esso, infatti, potevano accedere anche i pagani che, così, fissavano i loro occhi e lanciavano persino parole ai frequentatori dell’adiacente “Cortile degli Israeliti”, riservato al popolo sacro che partecipava al culto levitico. Tra i due spazi correva, come confine, un muro di demarcazione che recava targhe marmoree in greco. Esse ammonivano severamente di non varcare quella cortina, ricordando che il trasgressore sarebbe stato causa della sua morte [...].
Probabilmente alludendo a questo muro di separazione che rendeva arduo quell’embrione di dialogo interreligioso e interculturale, san Paolo nella sua Lettera agli Efesini dichiarava: «Cristo dei due [gli Israeliti e i pagani] ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia […], per riconciliare tutti e due con Dio […] Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (2,14-17).
Quel “Cortile dei Gentili” ai nostri giorni, in seguito a un discorso natalizio del papa Benedetto XVI nel 2009, è divenuto un simbolo delle iniziative per l’incontro tra credenti e non credenti attorno ai temi capitali dell’essere e dell’esistere. E questo non solo attraverso lo sguardo e la parola dei social, purtroppo inclini spesso allo scontro aggressivo, ma nel dialogo serio e severo, come suppone lo stesso termine nella sua matrice greca di incrocio (diá-) tra lógoi, discorsi articolati e approfonditi. È ciò che già nel 1991 auspicava padre David M. Turoldo nei suoi Canti ultimi: «Fratello ateo, nobilmente pensoso, alla ricerca di un Dio che io non so darti, attraversiamo insieme il deserto. Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi, liberi e nudi verso il Nudo Essere e là dove la parola muore abbia fine il nostro cammino».
Questo dialogo ha alle spalle, peraltro, una sua lunga genealogia che si ramifica già nelle stesse Scritture Sacre di Israele e della cristianità. Giovanni Paolo II nel 1979 affermava che «la stessa Parola divina s’è fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture, che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni».
Così, le culture mesopotamiche hanno offerto un loro contributo alla cosmologia biblica, accolto però attraverso il filtro della demitizzazione (Enuma Elish, Poema di Gilgamesh, Atrahasis), mentre nel campo del diritto i codici, come quello di Hammurabi, hanno regolamentato indirettamente alcune prassi ebraiche. La cultura nomadica è stata, invece, alla base della Pasqua esodica, così come la civiltà fenicio-cananea, oltre alla matrice linguistica dell’ebraico, ha permesso ai profeti di rileggere de-immanentizzandola la simbologia nuziale sacra, applicandola alla categoria dell’alleanza formalizzata con l’apporto dei trattati vassallatici ittiti. Il mondo egizio, dal quale proveniva Mosè, presentò a Israele la sua ricca produzione sapienziale, così come la civiltà iranica permise un nuovo approccio escatologico fondato sulla risurrezione.
A questo punto, giungiamo nel cuore stesso della nostra proposta: l’ellenismo ebbe nella «Sapienza di Salomone », comunemente denominato «Libro della Sapienza», uno dei terreni di confronto emblematici col giudaismo. Naturalmente una religione a impostazione storica come la biblica non poteva che portare al vertice questo dialogo, quando il cristianesimo propose come centro del suo annuncio l’Incarnazione: il Lógos trascendente e divino in Gesù Cristo assume la sarx, la «carne», ossia la storia e la cultura (Gv 1,14). Ecco, allora, il legame col giudaismo nello stesso Gesù e con la cultura greco-romana attraverso l’etica stoica e i culti misterici in Paolo, oppure il confronto serrato e dialettico con la gnosi in Giovanni.
Un’esperienza dialogica che si allargò con la tradizione cristiana successiva, talora anche attraverso la spezia della polemica e dell’apologetica. Bastino solo due esempi senza doverci estendere fino a territori letterario- teologico-filosofici immensi come, ad esempio, accade per le opere di sant’Agostino nel loro continuo contrappunto col platonismo e il neoplatonismo. Da un lato il «protrettico» Discorso ai giovani di Basilio di Cesarea, composto tra il 370 e il 375, nel quale questo Padre della Chiesa cappadoce esaltava la preziosità della letteratura profana (degli éxothen, gli «esterni ») sia per l’argomentare ( lógoi), sia per l’etica ( práxeis), la stessa esegesi e persino l’ascetica. Egli giungeva al punto di considerare i classici (come Platone e Plutarco) un vero e proprio ephódion, un «viatico» per l’istruzione e la paidéia del giovane cristiano.
D’altro lato, tra le mille testimonianze possibili, sorprende che un apologeta cristiano come Giustino nel II secolo non esiti a scrivere: «Cristo è il Lógos di cui fu partecipe tutto il genere umano [è la tesi patristica dei lógoi spermatikói, le verità diffuse dal Lógos divino come semi nelle varie culture]. Coloro che vissero secondo il Lógos sono cristiani, anche se furono giudicati atei come, fra i Greci, Socrate ed Eraclito e altri come loro» (I Apologia 46,2-3).
Ovviamente si potrebbe anche ricercare all’inverso l’effetto generato dal cristianesimo nel mondo greco-romano, la cosiddetta “Bibbia dei pagani”. Certo è che nella «voce degli antichi» classici hanno ormai diritto di cittadinanza anche le Scritture ebraiche e cristiane, dopo che è stata assegnata loro la categoria di «grande codice» della cultura occidentale, per usare la formula coniata da William Blake e delineata nelle sue potenzialità dal famoso saggio omonimo di Northrop Frye (1982).
Il Mahabharata, la Scrittura sacra indiana, con le sue 95.586 strofe (recensione «meridionale ») supera di una quindicina di volte la pur “lunga” Bibbia. Ma la varietà, la ricchezza, il fascino e l’influsso esercitato dalla Bibbia non sono comparabili con quello e con gli altri testi sacri dell’umanità, compreso il Corano che alla Bibbia attinge con abbondanza. È, comunque, indiscutibile la tesi di Frye secondo cui la Bibbia è «l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando».
In questa prospettiva generale, abbiamo scelto di riportare uno scritto giudeo-ellenistico deuterocanonico nel pantheon della classicità greca, nella certezza che il suo messaggio abbia una potenza e un’originalità analoghe a quelle che si scoprono incessantemente nella letteratura cosiddetta “pagana”. La Diaspora giudaica, infatti, ben rappresentata dal Libro della Sapienza, come vedremo, era consapevole della grandezza della cultura entro la quale era incastonata, ma era altrettanto sicura di avere una sua identità ricca di valori e di proposte, anche quando essi potevano collidere con l’orizzonte generale. Il rimando neotestamentario esemplare, al riguardo, potrebbe essere ancora una volta paolino: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono/bello (kalón) » (1Ts 5,21).