giovedì 26 luglio 2012
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Le grandi emergenze ambientali e le catastrofi che le accompagnano, il profilarsi di quello che viene chiamato «the perfect storm», la tempesta perfetta che ci attende tra riscaldamento globale, buco dell’ozono, scioglimento dei poli e innalzamento dei mari, tutto ciò ci fa sentire piccoli e impotenti. In più se si aggiunge l’incapacità di elaborare un controllo globale dell’ambiente mondiale da parte dei governi e delle organizzazioni intergovernative, ogni spazio di speranza sembra compresso e vano. Eppure c’è un altro modo di osservare le cose. Per esempio l’ultima riunione di Rio sul clima e sull’ambiente è finita con un nulla di fatto da parte dei governi e un arretramento rispetto a vent’anni fa. Questo fallimento è connesso alla natura dei governi delle singole nazioni, dagli Stati Uniti all’Europa, alle nazioni emergenti come Cina e India. Sembra che le questioni ambientali siano troppo a lungo termine per essere affrontate da governi il cui respiro non va mai oltre i cinque anni, le scadenze elettorali, gli andirivieni del potere anche in nazioni apparentemente inossidabili come la Cina. Però a lato di questa realtà e proprio grazie a essa l’operare delle organizzazioni non governative, l’operare di gruppi di pressione e di opinione, la rete estesa ed efficiente dei social network ha acquisito sempre più influenza e potere. E se si guarda ai risultati ottenuti da organizzazioni ambientaliste come Greenpeace (che ne è un esempio portante, anche se non è sola in questo operare) ci si rende conto che ci sono storie di successi, storie di miglioramenti, storie che fanno sperare, proprio perché derivano da una visione che non dà ai politici e ai governi tutto lo spazio del futuro. Sono storie che gli stessi ambientalisti spesso ignorano, come mi racconta il direttore di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio. Per tutte vale la storia di «Greenfreeze».I più sono convinti che Greenpeace sia solo un gruppo di attivisti che assalta baleniere e si arrampica su centrali nucleari. Ma in realtà Greenpeace è anche una struttura molto attrezzata che propone analisi tecniche e soluzioni sia ai governi che alle imprese. Nel 1987 vennero banditi dal Protocollo di Montreal i gas a effetto serra, i famosi CFC contenuti nei frigoriferi e dei refrigeratori, contenenti cloro, una sostanza che interagisce con l’ozono presente nella stratofera distruggendolo. Per sostituire queste sostanze «mangia ozono» l’industria sviluppò delle sostanze alternative, senza cloro, gli HFC. Che però sono dei potenti gas a effetto serra. Così Greenpeace iniziò nei primi anni 90 una campagna per evitare di cadere dalla padella nella brace.Ma i governi e le industrie chimiche osservarono che non c’erano alternative immediate. Greenpeace trovò a Dortmund un istituto medico che aveva inventato un misto propano-butano da sostituire ai CFC. E costruì il primo prototipo industriale a maggiore efficienza finanziandolo a proprie spese. Poi lanciò una campagna di vendita e in poco tempo arrivarono 70mila richieste. Immediatamente dopo Greenpeace convinse un’azienda della ex-Germania Est, la DKK a produrre il primo «Greenfreeze», termine con cui si intende un frigorifero senza CFC né HFC, ma con refrigeranti naturali (idrocarburi, CO2, ammoniaca, acqua, aria). Le altre industrie di frigoriferi si allinearono a ruota, in tutta Europa. Ai tempi del trattato di Montreal la preoccupazione principale di Greenpeace era affrontare i paesi emergenti come Cina e India che stavano entrando nella filiera del freddo. Per questa ragione Greenpeace si fece promotrice degli incontri tra l’industria tedesca ed il governo cinese. Quest’ultimo acquistò un milione di «Greenfreeze» a patto di poterli poi produrre direttamente in Cina, cosa che è avvenuta. Oggi circa il 40% dei frigoriferi prodotti al mondo sono tipo «Greenfreeze» cioè circa 40 milioni di frigoriferi all’anno (e 650 milioni in totale). E in Cina nel 2010 il 75% dei frigoriferi era di questo tipo.Ciò corrisponde alla riduzione di circa 450 milioni di tonnellate di CO2, cioè più delle emissioni a effetto serra di Olanda, Grecia e Austria (e poco meno di quelle dell’Italia). La campagna che ne ha accompagnato il lancio di Greenfreeze ha convinto grandi multinazionali come Coca Cola e Unilever a cambiare la propria «catena del freddo» adottando «Greenfreeze» entro il 2015, mentre la coalizione della grande distribuzione aderente al programma Refrigerant Naturally lo farà entro il 2020. Per questa operazione innovativa Greenpeace ha ricevuto nel 1997 la massima onoreficenza dell’UNEP, l’agenzia ambientale delle Nazioni Unite e nel 2010 un premio dell’EPA, l’agenzia ambientale statunitense. Una versione del «Greenfreeze» diretta a un uso nei villaggi privi di corrente elettrica è stata elaborata da Greenpeace nel 2003, si chiama Solar Chill e conserva il freddo sotto forma di ghiaccio per tenere i vaccini a una temperatura tra i due e gli otto gradi. Oggi nella stessa battaglia c’è un fronte nuovo, perché una parte delle industrie del freddo e dei condizionatori (in particolare quelli delle automobili) sono in esponenziale aumento in paesi caldi come l’India ed il sud della Cina. E ovviamente ci sono altri campi in cui l’innovazione tecnologica renderebbe possibili enormi passi avanti dal punto di vista ambientale, auto ad altissimo rendimento e minimo consumo, sistemi di aerazione per istituzioni e ambienti pubblici a impatto zero e via dicendo. Questo per dire che la battaglia per la salvezza del pianeta non passa soltanto per la buona o la cattiva volontà di Obama (anche se gli stati Uniti sono stati gli ultimi ad aprire il mercato a «Greenfreeze» e anche con limitazioni) o alla buona o cattiva volontà dei prossimi governi dei BRIC – i Paesi emergenti, Brasile, Russia, India e Cina.
Questo tipo di innovazione tecnologica, eco-oriented dimostra che la militanza ambientalista non è uno stupido accanimento su un malato terminale, ma che si tratta di un modo diverso, più efficiente ed intelligente di concepire la vita sul pianeta. Anche se siamo costretti ancora a leggere sui giornali italiani che «Il Giappone ha scelto tra chiudere le centrali nucleari ed il proprio Pil». Oggi invece è chiaro che l’opzione non è tra la conservazione e lo sviluppo, ma su una formula di sviluppo più intelligente che veda risorse e ambiente come valori da proteggere a lungo termine e su cui creare innovazione. Il modello energetico «o la va o la spacca» non conviene più a nessuno, nemmeno a coloro che fino a poco tempo fa ne erano i convinti propugnatori.
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