lunedì 30 gennaio 2023
Vittorio Sgarbi individua nel gotico pisano consonanze formali con lo scultore cesenate: uno stile per il popolo, distante dall’astrattezza bizantina. Come piaceva all’amico Testori
Un particolare del portale della cattedrale di Cesena realizzato da Ilario Fioravanti

Un particolare del portale della cattedrale di Cesena realizzato da Ilario Fioravanti - Gian Paolo Senni

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Domenica 29 gennaio a Cesena si sono chiusi in cattedrale le celebrazioni per il centenario dalla nascita e il decennale dalla morte di Ilario Fioravanti. Alle 16.45 è stato presentato il volume Ianua Sancti Ioannis. La porta bronzea di Ilario Fioravanti, a cura di Walter Amaducci e Marino Mengozzi (Stilgraf, pagine 240) con introduzione di Vittorio Sgarbi che anticipiamo in questa pagina; Sono intervenuti: Douglas Regattieri, Christian Castorri, Mario Righi, Roberto Graziani, Adele Briani Fioravanti, Maurizio Cecchetti. Ha chiuso la giornata, alle 18.00, la concelebrazione eucaristica presieduta dal vescovo di Cesena-Sarsina Regattieri.

Il portale della cattedrale di Cesena realizzato da Ilario Fioravanti

Il portale della cattedrale di Cesena realizzato da Ilario Fioravanti - Gian Paolo Senni


Nelle porte bronzee del Duomo di Monreale, arrivate da Pisa, è visibile in un battente la firma del loro autore: ANNO D[OMI]NI MCLXXXVI I[N]DICTIO[N]E III BONA[ N]NUS CIVIS PISANUS ME FECIT («Bonanno cittadino pisano mi fece entro l’anno del Signore 1186»). È quanto di solito si faceva e si sarebbe continuato a fare con le opere d’arte, a certificarne la paternità [...]. Guardo la porta bronzea di Ilario Fioravanti nel Duomo della sua Cesena, a un secolo esatto dalla nascita dell’artista, e mi viene spontaneo pensare a Bonanno, a un’epoca ancora virginale in cui le perdute capacità degli occidentali nel campo della metallurgia portavano ad elaborare linguaggi espressivi obbligatoriamente grezzi, privi quindi di troppe raffinatezze, ma che comunque vogliono affermare una propria autonomia rispetto ai più sofisticati esempi bizantini, come corrispettivo estetico di un modo d’intendere la religione che alle astrattezze teologiche preferisce la flagranza narrativa ed emotiva delle Sacre Scritture. Non c’è dubbio che, per quanto determinata da sforzi di tecnologia artistica che per quell’epoca e quella parte del mondo erano di eccezionale livello qualitativo, la lingua di Bonanno si ispira all’archetipo della Biblia pauperum, volendo parlare di cose semplici a gente che si immagina abbia l’animo puro. Per poterlo fare, bisognava prendere le distanze dall’elegante decorativismo di eredità bizantina, mantenuto a basso rilievo nel bronzo come a volerlo disegnare in superficie piuttosto che scolpire. Era venuto il momento di comunicare in maniera diversa, più al tempo con la sensibilità religiosa del momento, concentrando la massa plastica delle figure in modo da farle emergere con vigore dal fondo, come se fossero coinvolte in una tensione vitalistica, rustica nelle sue manifestazioni, ma efficacissima, attraverso la quale potersi rivelare agli occhi e alla mente di chi guarda. Eccola la grande novità di Bonanno e del Romanico pisano, l’essere finalmente linguaggio cristiano che nei suoi valori oggettivi e pragmatici rispecchia una mentalità diversa da quella orientale, allora ancora dominante nell’arte dell’area mediterranea. Ci vorrà ancora tanto perché il percorso possa ritenersi concluso, Bisanzio non sparirà di certo da un giorno all’altro, ma era importante che si facesse il primo passo. Con Bonanno la strada può dirsi indicata: cercare di vincere la planarità a favore della triplice dimensione voleva dire rilanciare i diritti della scultura come arte dotata di un proprio specifico, così come era successo nella civiltà greco- romana ai cui fasti estetici si aspira di ritornare, in quanto disciplina che pone in dialogo espressivo non di semplici forme dotate di spessore fisico, ma di masse volumetriche che nel mettersi in relazione stabiliscono nuove condizioni spaziali.

Ilario Fioravanti al lavoro

Ilario Fioravanti al lavoro - Sara e Urbano

Trovo che il Fioravanti della Cattedrale di Cesena, fatta forse eccezione per i bizantineggianti riquadri ad incisione dei maniglioni, sia davvero un Bonanno redivivo, perfettamente calato in tutte le principali istanze che hanno fatto della scultura del pisano un momento di fondamentale importanza negli albori ancora timidi di una nuova arte europea, cristiana e “disorientalizzata”. Ho conosciuto Fioravanti attraverso un uomo, uno scrittore, uno studioso e critico d’arte, un intellettuale di cui molto mi fidavo, Giovanni Testori, una delle nostre maggiori personalità del secolo scorso. Fu lui ad avvicinarsi a me, in maniera anche inattesa, accompagnando i miei esordi professionali di storico e critico, ormai quasi cinquanta anni fa, con un’attenzione e una generosità fuori dal comune, da chioccia che voleva svezzare un pulcino di buone speranze, cosa di cui ancora gli sono grato. Fra le segnalazioni sempre preziose che in quei contatti iniziali mi sono da Testori, anche quella su un artista che solo lui poteva scoprire e comprendere fino in fondo, appunto Fioravanti, dato che la sua arte rispecchiava la genuinità e l’immediatezza di un sentimento nel quale rinveniva le stigmate della religiosità di popolo più autentica, l’unica per lui veramente considerabile. Sono andato così a visitare Fioravanti nel suo studio: il fatto che fosse coetaneo di mio padre me lo faceva sentire familiare prima ancora di conoscerlo, così come negli anni a seguire sarebbe in effetti successo. L’ho trovato intento a modellare blocchi di creta per ottenerne delle figure che, seppure di soggetto religioso, mi sembravano presentare fattezze caricaturali. Mi attendevo che Fioravanti attenuasse questo aspetto, come se dipendesse da un approccio iniziale all’opera, ma non fu così. Avrei imparato a capire che quell’espressività volutamente scarna e marcata, proprio da Romanico recuperato, serviva anche a concedere adeguata ribalta alla materia operata, dotata intrinsecamente di una vis non meno importante di quella che le mani potevano fare emergere plasmandola. «L’arte non è vedere », ha detto Fioravanti, «fare una cosa com’è, ma il gesto di far vedere, un’operazione più profonda. Nell’arte, nella mia arte, ci deve essere un’attrazione. Fare scultura, così come realizzare un’opera d’arte, non è proporre la realtà fotografica, ma è invece reinventare ». E Fioravanti reinventa, propone nuove visioni, suscita altre emozioni, ma senza mai dimenticare il punto da cui tutto parte. La creta aveva per lui qualcosa di sacro, il processo artistico che preveprovenute de il suo impiego rimanda più di ogni altra azione dell’uomo alla creazione universale, portando a ottenere qualcosa di segnato, di riconoscibile dall’indistinto iniziale [...].

Un particolare del portale della cattedrale di Cesena realizzato da Ilario Fioravanti

Un particolare del portale della cattedrale di Cesena realizzato da Ilario Fioravanti - Gian Paolo Senni

Guardiamoli da vicino, questi bronzi di Fioravanti per la porta della Cattedrale cesenate: ci accorgeremo che portano ancora i segni della creta da cui sono derivati, una creta che è stata scavata e incisa con le dita, modellata, striata. Se nel tutto tondo lo sforzo creativo ha conseguito definizioni volumetriche autosufficienti, come satelliti che siano stati espulsi da pianeti in seguito a collisioni (così, sostengono gli astrofisici, è capitato fra Luna e Terra), nei rilievi narrativi il rapporto con il fondo da cui le figure emergono si mantiene stringente, come se la mano dell’artista si trovasse a che fare con una materia ancora plasmabile di cui potrebbe annullare con un solo gesto le differenze di spessore, riportando il tutto al grado zero di cui si è prima detto. Del resto anche la modellazione è stata limitata al minimo caratterizzante, senza nulla concedere al dettaglio che non risulti essenziale per il riconoscimento di ciò che si vede, giusto quanto basta perché ciò che viene definito prenda sufficientemente il largo dallo stadio dell’indistinto. Nulla di più, perché non servirebbe ai fini del discorso espressionistico di Fioravanti alle soglie del brut, l’unico che concepisce e ritiene all’evangelica portata di tutti, nulla di meno, perché al di sotto di esso non ci sarebbe arte, solo la piattezza del nulla. Credo che in questa dialettica continua e serrata fra stabilità e precarietà, determinato e indefinito, risieda molto del senso di rivelazione, e con esso anche il suo fascino, che la Biblia pauperum di Fioravanti ci trasmette, come un messaggio scritto sulla sabbia la cui forte, schietta evidenza potrebbe anche dissolversi nell’aria da un momento all’altro se solo il vento volesse. Non ci fosse la Provvidenza ad assisterla, si potrebbe credere che l’umanità pupazzesca che Fioravanti congegna, quella in cui la parte più incontaminata del nostro spirito sente istintivamente di appartenere, si muova in modo sconclusionato, votata a un caos eterno che promette fatica e sofferenza, perché nulla da soli si è davvero in grado di fare. Per fortuna c’è Dio che è l’unica speranza di ordine per le nostre vite, nulla potremmo al di fuori di lui, la pace e la serenità ci sarebbero negate senza il suo comando. E non si tratta di una condanna, semmai è un dono, altissimo. Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris: HILARIUS CIVIS CAESENATIS sembra non volercelo fare scordare, nella certezza incrollabile della resurrezione della carne. Quella dell’anima è l’arte, arte come la sua, ad assicurarcela.

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