Alexandre Dunouy, “Jean Jacques Rousseau nel parco di Rochecardon”, 1795 - WikiCommons
Era stato Friedrich Nietzsche a parlare per i Greci di «grandiosa solitudine» e ad affermare, di conseguenza, che fossero stati gli unici vissuti esclusivamente per la conoscenza, edificando così, in opposizione alla «repubblica degli eruditi», quella «degli uomini grandi». Disposizione che, nel corso di quei secoli classici, avrebbe autorizzato due diversi atteggiamenti del filosofo: che, prima di Platone, «difende la sua patria», dopo «è invece in esilio e cospira contro» di essa. Al lettore che ne volesse sapere di più raccomandiamo un suggestivo volume di Aurelio Mussi pubblicato da Neri Pozza nel 2021 e intitolato Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network. Arriva ora - come ad approfondirne uno specifico capitolo dedicato soltanto al Settecento - un libro di Filippo Sani, gremito di spunti e suggestioni. Ne sono protagonisti indiscussi in tre lunghi capitoli l’amato Jean-Jacques Rousseau, di cui Sani è oggi probabilmente il massimo studioso italiano, Denis Diderot e il medico svizzero Samuel-Auguste-André- David Tissot.
Parliamo di La solitudine dell’uomo di lettere e le sue storie (Editrice Morcelliana, pagine 174, euro 20), di cui c’è subito da sottolineare il sostantivo «storie», per dire come queste pagine, al di là del loro impianto e delle tesi di fondo, si prestino anche a una lettura divagante e curiosa, fatta di soste e fantasticherie, attenta al dettaglio e alla singola citazione, per poter porre la massima attenzione a tutte quelle voci spesso in opposizione, ma ormai flebili, che giungono sino a noi dopo secoli di macerie e oblio. Ci limitiamo a un solo esempio, ricavandolo dalla Dissertazione sulle malattie dei letterati (1713) del medico Bernardino Ramazzini, professore all’Università di Modena dal 1682 e, poi, di Padova, dal 1700. Si tratta di parole che, per l’autorevolezza di chi le pronunciava, credo abbiano avuto un ruolo non insignificante nella divulgazione di uno dei più tenaci stereotipi sugli intellettuali: «I letterati sono soggetti a crisi di malinconia, tanto più se una tale inclinazione l’hanno avuta fin dalla nascita. I veri letterati sono d’aspetto gracile, di brutta cera, plumbei, uggiosi e desiderosi di vita solitaria».
Se poi ci rivolgiamo a Tissot, che di Ramazzini fu estimatore, e al suo Della salute dei letterati (1775), è difficile non soffermarsi sull’elenco delle «nove cause generali delle malattie degli uomini di lettere»: l’eccessiva concentrazione mentale, la prolungata inazione del corpo, la postura da seduti per troppe ore, l’eccessivo ricorso a veglie notturne, l’aria viziata per il costante contatto coi libri dello studiolo, la scarsa pulizia del proprio corpo (in particolare dei denti) accompagnata da una certa negligenza nell’abbigliamento, l’abitudine di leggere durante i pasti e quella di trattenere le urine (vizio su cui il medico almanacca a lungo), infine la rinuncia alla vita in società. Quanto a questa fuga dalla società, talvolta collegata alla ricerca del locus amoenus, non importa se marittimo o terrestre, non ricordiamo qui le suggestive pagine dell’Institutio Oratoria di Quintiliano, che, proprio all’opposto di quanto sosterrà Tissot, consigliava invece di approfittare del «silenzio della notte ( silentium noctis) », della «camera chiusa ( clausum cubiculum) » e della «sola lucerna ( lumen unum) ».
Ma torniamo al libro di Sani, il cui senso finale dopo tanto viaggio pare confermare - se è lecito attribuire a uno studioso così rigoroso una preferenza personale - la posizione dell’influente e nei secoli citatissimo Seneca, quello del De tranquillitate animi: «Sono due pratiche da unire e alternare, la solitudine e la compagnia. La prima ci farà desiderare il contatto con gli uomini, l’altra quello con noi stessi, e l’una sarà di antidoto all’altra: la solitudine ci guarirà dal disprezzo della folla, la folla dalla nausea della solitudine». Un Seneca col quale Rousseau è di sicuro consentaneo, sebbene pensi che l’autosufficienza della solitudine possa raggiungersi davvero solo nell’Aldilà. Ora però siamo di fronte, spiega Sani, a «un processo di deprofessionalizzazione del filosofo». Ancora Sani: «A mano a mano che il filosofare tendeva a separarsi dall’appartenenza all’istituzione universitaria diventava un esercizio autoriale in cui i saperi filosofici e scientifici si presentavano nelle vesti stilistiche e tematiche di generi letterari». Mentre diviene paradigmatica in La passeggiata dello scettico, scritto da Diderot tra il 1749 e il 1751, la contrapposizione tra Cleobulo e Aristo, ovvero tra le ragioni di un’appartata solitudine, che rischiava però di essere «troppo prudente», e quelle d’un impegno politico improntato alla critica radicale di tutti gli idola.
Concludiamo con le pagine dedicate da Rousseau all’isola di Saint-Pierre, sul lago di Bienne, in Svizzera, nella quinta passeggiata d’un libro di natura misteriosa, singolarissimo e inclassificabile, come Le fantasticherie del passeggiatore solitario (1782): un luogo in cui visse tra il settembre e l’ottobre 1765 e che lo rese «compiutamente felice», procurandogli «teneri rimpianti», chiuso come fu nel cerchio d‘una operosa solitudine, mitigata solo dall’arrivo della moglie e dalla presenza discreta dell’unica famiglia che abitava lì. Ecco: nessun impegno di scrittura; il lavoro coi contadini; lo studio della botanica e l’occupazione mattutina di classificare le piante dell’isola; le escursioni pomeridiane in barca, dove, lungo disteso guardando il cielo, si lasciava andare alla deriva, «a capriccio dell’acqua», per molte ore, «immerso in mille fantasie confuse, ma piacevolissime». Per non dire dei bagni quando si trovava a costeggiare «le verdeggianti rive» o della contemplazione placida di esse da qualche altura o durante le passeggiate serali. A Saint-Pierre non v’è posto per il Robinson di Defoe, che invece era stato evocato insistentemente nel terzo libro dell’Emilio o dell’educazione (1762). Il lettore vedrà da sé in che modo: non senza sorprese.