martedì 19 aprile 2022
Lo scrittore eremita laico Bobin riflette su come è cambiato l’approccio verso chi ci lascia. Dal trapasso in casa del nonno all’anonima stanza d’ospedale del padre
Lo scrittore francese Christian Bobin

Lo scrittore francese Christian Bobin - archivio

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«Non vivo mai un giorno senza pensare alla morte poiché il mio pensiero è sempre rivolto alla vita. È la fragilità di questa vita che la illumina al meglio. Me la rende preziosa». E ancora: «La morte è il regno della grande delicatezza». Non aveva certo in mente la brutalità e l’orrore della guerra Christian Bobin quando così si esprimeva pochi anni fa in una lunga intervista incentrata sul tema della morte e della sua rimozione nella nostra società. Quel testo ora esce in italiano per Animamundi edizioni col titolo Un azzurro che non mente più (pagine 80, euro 10,00) in una collana, pubblicata in collaborazione con la fraternità di Romena, che raccoglie molte opere dello scrittore-eremita francese, uno dei più amati e popolari Oltralpe. Dopo Francesco, infinitamente piccolo egli è divenuto noto al grande pubblico, anche italiano, per i suoi scritti che mescolano meditazione e poesia, afflato religioso e quotidianità. Ritiratosi da qualche tempo in mezzo alla campagna francese, precisamente a Le Creusot, in Borgogna, in una casa in mezzo al bosco, ci ricorda, come ha detto recentemente sul quotidiano, La Croix - che «occorre rimettere al centro vitale della nostra società coloro che servono, coloro che rammendano senza fine il tessuto dell’esistenza, coloro che non vivono in base ai budget e alle slide». E lo ribadisce in questa lunga conversazione con Damien Le Guay e Jean-Philippe de Tonnac, comparsa nel 2015 presso Albin Michel all’interno del volume Les morts de notre vie, una serie di interviste a vari personaggi della cultura francese, da Catherine Clément a Juliette Binoche, da Edgar Morin ad Amélie Nothomb. Il racconto di Bobin si fa testimonianza personale, allorché descrive quattro momenti in cui ha dovuto in particolare confrontarsi con la morte. Quella del nonno ma- terno, quando lui aveva 19 anni, una morte avvenuta in casa, come accadeva una volta, in «un’epoca in cui le persone restano vicine ai loro cari finché la morte non li coglie, li vegliano per tutto il tempo sotto il tetto familiare ». Poi, il lutto più doloroso, la scomparsa del padre, nel 1999 in ospedale. Quando Christian con la madre si recano per la prima volta a trovarlo, non possono non notare come le sedie della camera siano accatastate in un angolo senza che nessuno le abbia messe a disposizione dei visitatori. Particolare banale se vogliamo, ma per Bobin «è un segno tecnico dell’indifferenza degli ospedali e dell’orribile sapere che verrà quella morte: non vale nemmeno la pena di sistemare tutto per qualcuno che ben presto non sarà più di questo mondo. Quel giorno la morte prende le sembianze di sedie impilate». Non dissimile l’atmosfera che regna nel 2013 nella casa di riposo dove morirà la madre. Una sera un’infermiera chiede a Christian a bruciapelo se avesse già scelto i vestiti per la bara. Ma in quel momento sua mamma respirava ancora. Una brutalità detta senza cattiveria, commenta oggi Bobin, ma davvero terribile, segno della disumanità delle istituzioni sanitarie. Infine, lo scrittore parla dell’ultima «figura della morte che mi ha turbato», quella di un’amica. Però il suo bilancio di queste esperienze non volge al nero ma all’azzurro, il colore che dà il titolo al libro: la coscienza che con la morte non finisce tutto. Da non credente, Bobin ammette di non saper pregare ma ripercorre le strade di molti pensatori e scrittori cristiani, da Hopkins a Bloy, da Clavel a Dhotel, o della musica di Bach, «infinita esplosione dell’infinito». E più avanti aggiunge, sollecitato dalle domande dei suoi interlocutori: «Ecco per me un’immagine della morte: rende tutti noi dei pensatori profondi». Di qui l’esercizio della scrittura, che non è altro che misurarsi attraverso le parole col desiderio della resurrezione. «La grande accaparratrice - precisa non può accaparrarsi tutto. Ne ricava ossicini dalle nostre ossa, ma non sa cosa farsene delle nostre risate, dei nostri stupori, dei nostri amori sublimati. La morte ci mette in una grande intimità con lei, ma c’è una stanza segreta, in noi, nella quale non sa entrare». Ma come lo scrittore si raffigura l’aldilà, la vita di chi ci ha lasciato? «Penso che siano anche altrove», risponde. E racconta un episodio di cronaca che l’ha colpito. Una ragazza pugnalata a morte senza che nessuno potesse fermare la mano del suo assassino, ma la persona che l’ha soccorsa ha raccolto le sue ultime parole: «Sto per morire. Per favore, regalatemi un sorriso ». Ecco, Bobin immagina che possa esistere un luogo «in cui il sorriso dei neonati invece di perdersi si preserva per sempre. Il luogo in cui si trovano i morti è lo stesso di quello in cui si trovano i nostri sorrisi. Non posso dirne di più perché non posseggo alcun sapere, non sono uno stregone, ma sono sicuro di ciò che dico. C’è un luogo-nonluogo in cui si raccolgono e sfavillano eternamente i sorrisi dei neonati, i torpori degli agonizzanti e il meglio di ciò che è avvenuto tra queste due età. C’è qualcosa di incorruttibile che non ci sarà mai sottratto». Pur non avendo la fede, egli esprime la consapevolezza che non tutto può andar perduto e che un manto di misericordia coprirà le nostre azioni, sia belle che brutte. Per questo abbiano bisogno di riempire la nostra esistenza di bellezza, mentre le camere ardenti sono luoghi inespressivi e desolanti, «sintomo di un mondo senza cuore». Perché «la bellezza è un bene elementare di cui abbiamo bisogno. Dovrebbe essere concessa a tutti, anche ai morti». Altrimenti non è possibile cogliere nessun «brusio dell’eterno», quel senso del divino che per Bobin si può intuire solo con la teologia negativa. Dio resta un mistero indicibile: «Quando lo nominiamo, rischiamo di ucciderlo. Il suo principio è un principio amoroso: ciò che abbiamo è molto più grande di tutto ciò che potremmo mai dirne».

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