Se dovessimo sinteticamente definire il nuovo film di Sorrentino, È stata la mano di Dio, presentato ieri in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, potremmo dire che è un atto d’amore. Un atto d’amore per i suoi genitori, scomparsi in un drammatico incidente quando il regista era solo un adolescente; per se stesso, quel diciassettenne che si trova ad affrontare una tragedia enorme; per il cinema che lo ha aiutato a reinventare una realtà troppo dolorosa e scadente; per i suoi figli, per aiutarli a capire i suoi difetti; per gli attori che ha scelto – Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Filippo Scotti, Luisa Ranieri – ai quali ha affidato la propria intimità; per gli spettatori, con i quali ha condiviso una storia dolorosa, ma ricca di grazia, speranza ed energia.
Tornato a girare a Napoli 20 anni dopo L’uomo in più, il film prodotto da Lorenzo Mieli e lo stesso Sorrentino, nelle sale il 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre, è la storia di Fabietto Schisa, alter ego del regista, che nella Napoli degli anni Ottanta, in spasmodica attesa del già leggendario Diego Armando Maradona, vive con i genitori Maria e Saverio, il fratello Marchino e la sorella Daniela, sempre chiusa in bagno, osservando la ricca galleria di personaggi, parenti e amici, che ruotano intorno alla sua famiglia. Tutto cambia però quando il padre e la madre perdono la vita nella loro casa di Roccaraso a causa di una fuga di monossido di carbonio. Fabietto avrebbe dovuto essere con loro quel weekend, ma il Napoli giocava contro l’Empoli al San Paolo domenica e lui aveva deciso di andare a vedere Maradona. Se il film comincia con una di quelle scene oniriche che caratterizzato il cinema di Sorrentino, il regista si allontana subito dalla ricerca formare dei suoi film precedenti per concentrarsi su una narrazione più semplice e lineare, necessaria per restituire le emozioni suscitate da una materia incandescente e aprire al pubblico la porta di una stanza fino a oggi rimasta chiusa.
Un film appassionato, lucido, coraggioso, molto spesso divertente, liberatorio questo di Sorrentino, che non indulge ad alcuna autocommiserazione e rievoca, tra realtà e fantasia, quei sentimenti provati ai tempi in cui quei fatti ebbero luogo. «Sono in un momento della mia vita in cui mi sento abbastanza maturo per affrontare un film così personale, per fare un bilancio del passato e rivivere la mia adolescenza, piena di amore e dolore. Mi vengono in mente le parole di Charles Bukowski: “Gli dei sono stati proprio buoni, l’amore è stato bello e il dolore è arrivato a vagonate”.
Compiuti 50 anni l’anno scorso ho pensato che tutto l’amore che ho avuto nella mia vita da ragazzo, ma anche il dolore, potessero essere declinati in un racconto cinematografico indipendentemente dalle mie esigenze». Non è così importante nel film distinguere quello che è realmente accaduto dall’invenzione del regista. «Mi interessava restituire la timidezza e l’inadeguatezza del ragazzo che ricordavo di essere a 17 anni. Sono molto pauroso nella vita, ma coraggioso nei film. Qui però mi veniva ri- chiesto un coraggio diverso, necessario soprattutto in fase di scrittura. Quando arrivi sul set infatti sei assorbito da problemi di ordine pratico e le paure che avevo sono svanite nella quotidianità, anche se alcuni giorni riaffioravano con prepotenza. Non so ancora se questo film segnerà una svolta nel mio cinema, ma mi piace pensare di essere qui a Venezia, vent’anni dopo L’uomo in più, con un altro nuovo inizio, un film diverso, semplice ed essenziale, capace di far parlare sentimenti ed emozioni».
E a proposito del regista Antonio Capuano, suo primo mentore, che nel film gli dà un vero e proprio scossone emotivo chiedendogli se ha realmente qualcosa da raccontare con i suoi film, commenta: «Saggiamente mi diceva che il mio dolore non sarebbe stato una sufficiente garanzia di creatività. E mi ha insegnato che la maggior parte delle cose positive che vengono dall’invenzione cinematografica hanno a che fare con il conflitto e non con la pacificazione».
«Nel corso di questa lunga e felice collaborazione – aggiunge Servillo – è capitato che Paolo mi dicesse che prima o poi avrebbe trovato la distanza giusta per raccontare questo episodio drammatico della sua vita e che mi avrebbe chiesto di fare il padre. Non mi ha mai chiesto di essere esattamente quello che è conservato nella sua memoria, ma mi ha detto che Teresa Saponangelo ed io dovevamo sembrare molto innamorati perché questo amore, finito il tempo della spensieratezza, è quello che Fabietto porta con sé quando deve camminare da solo nella vita. Paolo mi ha sempre considerato un fratello maggiore, ma qui sono stato promosso sul campo. Abbiamo pianto e riso insieme».