Il mondiale è finito. E per noi, fine dell’azzurro vergogna, da campo. Chapeau alla Francia che ha calato il poker iridato (4-2 alla Croazia) e anche alla nostra resistenza. Diciamoci la verità, con l’Italia fuori da Russia 2018 non è stato facile vivere questo mese da semplici spettatori o al massimo da tiepidi tifosi neutrali. Battuti anche in questo: il 99% degli italiani per una domenica si è sentito croato, quindi nuovamente sconfitti. Chapeau anche alla Croazia che comunque è arrivata lì dove nessuno poteva immaginare.
La nazionale croata è stata l’ultima a cui ci siamo aggrappati per dimenticare, visto che era da Svezia 1958 che non ci capitava di stare solo a guardare. Ognuno di noi ha provato ad appassionarsi a qualche selezione e magari qualcuno c’è pure riuscito. Così, c’è chi ha puntato sull’esotico, tipo Panama che però è passata come una cometa, portandosi via in fretta la bella favola della piccola cenerentola arrivata in terra di Russia “scippando” la qualificazione alla grande matrigna America.
C’è chi dagli ultimi Europei non aveva smesso di tifare per l’Islanda che dopo il diploma continentale non ha superato l’esame di laurea mondiale, ma resta una bella saga sportiva che lassù tra i geyser potranno raccontare a figli e nipoti nelle notti luminose di Reykjavík. C’è chi, come il sottoscritto, ha sperato nell’Uruguay di un maestro di vita ancor prima che di calcio come Tabarez (commovente e dignitoso con la sua carrozzina per gli allenamenti e le stampelle da gara) e poi che questo finalmente potesse essere l’anno buono delle africane. Speranze vane. Tanto fisico e la solita buona volontà quella mostrata dalla Nigeria e le sue sorelle, ma le selezioni del continente nero non sfondano. E ha ragione un fuoriclasse come il senegalese Didier Drogba quando manda a dire a tutte le nazionali africane che «qualificarsi ai Mondiali non equivale a una vittoria».
Chi ha vinto, la Francia, ha dimostrato di essere una squadra con una marcia in più, dal redivivo universale Pogba fino al ct Deschamps che aveva già conquistato un Mondiale da calciatore, nel 1998 e vent'anni dopo dalla panchina. Storie rare (solo tre ct ci sono riusciti). Per tasso tecnico non è stata invece un’edizione rara e preghiamo tutti i telecronisti Mediaset, a cominciare dal gatto Pardo, di depennare dal loro vocabolario l’accezione gratuita «grande qualità».
Prosegue infatti il trend globale di un calcio più fisico che tecnico. La dimostrazione lampante? Il cammino fatto dalla modesta Svezia e il quarto posto della giovane Inghilterra di Southgate (l’uomo nato con il gilet) che, mollata la tradizione muscolare e l’eterno cross e vai, si è convertita al tiki-taka, ma deve ancora crescere per arrivare a regalare ai sudditi del Regno un'altra Coppa che manca ormai da oltre mezzo secolo (Mondiale d’Inghilterra 1966).
Sta meglio il Belgio di Martinez che sale meritatamente sul podio, ma ricorda tanto la vicina Olanda (assente come noi), la quale dai tempi di Cruijff fino all'ultima di Sneijder finalista a Sudafrica 2010 (mondiale vinto dalla Spagna) ai Mondiali ha sempre recitato il ruolo dell’eterna incompiuta.
Il calcio del Terzo millennio conferma che avere in squadra un Pallone d’Oro - che guadagna un euro al secondo - non basta. Cristiano Ronaldo da solo al massimo può trascinare il Portogallo a vincere un Europeo (ed è già un'impresa) ma non un Mondiale. Non si arresta la maledizione di Messi che piange sempre quando indossa la maglia albiceleste. Lacrime amare per l’Argentina, forse più vittima dell’ingombrante simulacro di Diego Armando Maradona che della sua Pulce: Messi fa sempre il possibile per far spiccare il volo alla sua Selección, ma poi si ritrova puntualmente steso a terra, a fissare il vuoto. Stesso copione per il Brasile di Neymar, che non è Pelè e neppure Zico e la Seleçao da quando Ronaldo (il Fenomeno) non gioca più, ha smesso di essere la squadra degli incantevoli danzatori del Fútbol bailado.
Fine delle danze, stop alla Var e anche alle dirette del pomeriggio e delle 20, un appuntamento che era diventato più abituale dell’aperitivo a Milano o del cacio e pepe a Roma. Tutta roba italiana, ma l’Italia nella terra dei figli di Putin lo ribadiamo, non è pervenuta. L’augurio: mai più un Mondiale senza azzurri.
Dunque ci prenotiamo già per Qatar 2022 quando, causa caldo desertico, si giocherà in inverno, rompendo una tradizione del mondiale solo d’estate che va avanti da Uuruguay 1930. Peccato, perché ormai non ci restava che la tradizione, quella di un torneo che ogni quattro anni, dalla metà di giugno alla metà di luglio, riesce a coinvolgere miliardi di persone. Molti anche non calciofili che però, per almeno trenta giorni, sono lì davanti alla tv, attenti, concentrati. E magari, all’improvviso folgorati da un colpo di tacco di Mbappé riescono persino ad accettare che la non simpaticissima Francia torni sul tetto del mondo.