Zeman, chi è costui? Da almeno trent’anni l’Italia del pallone si interroga sul misterioso uomo venuto dall’Est.Il più irregolare degli scrittori viventi, Manlio Cancogni si è ispirato a lui nella stesura del romanzo
Il mister. Anima trasparente come i cristalli della sua Boemia, Zeman va, Zeman torna. Con il suo ego dignitoso, profondo, da sempre ammantato di mistero. Un mistero fitto come la coltre di fumo che aleggia intorno al suo vecchio impermeabile all’Humphrey Bogart: Zeman va, Zeman torna. Il suo ultimo, ma non definitivo capitolo lo sta scrivendo a Pescara. Con passo lento, ma deciso, è risalito dalla C alla B, nella ex cattedra del “Profeta” Giovanni Galeone e oggi sfida la capolista Torino dei soldatini granata di Ventura. Ma prima di arrivare in riva all’Adriatico è tornato nella sua Foggia, alias “Zemanlandia”.E nel viaggio dell’eterno ritorno lo ha seguito come un’ombra la telecamera e il taccuino surrealista di Giuseppe Sansonna. Da questa marcatura a uomo, eludendo per un attimo la zona zemaniana, è scaturito un piccolo e raro capolavoro di letteratura calcistica, il libro-dvd:
Due o tre cose che so di lui. Un anno con Zeman (Minimum Fax). «Zeman è innamorato del proprio gioco assoluto, della propria anacronistica visione del calcio. Spesso sconfitta dalla cinica banalità del reale». La sintesi perfetta di Sansonna, riguardo al manifesto calcistico-culturale sviluppato negli anni dal più kafkiano degli allenatori.Fedele nelle stagioni al suo pensiero forte, quello del figlio del prof. Karel Zeman, luminare della medicina e pioniere delle tracheotomie e il nipote di Cestmir Vycpàlek. Lo zio “Cesto”, scampato al campo di sterminio nazista di Dachau, per diventare un campione sui campi di calcio, con la maglia della Juventus e del Palermo. Ed è nella città siciliana che grazie ai buoni uffici di zio Cesto, nel torrido ’68 sbarcò il giovane Zdenek, già innamorato del nostro campionato e delle magie di Gianni Rivera: «Talento cristallino, ma mai anarchico sempre inserito nel gioco. Uno che faceva quaranta assist decisivi all’anno». Fresco di diploma in educazione fisica, nei vicoli poveri della Kalsa vide riflessa l’immagine della sua Cecoslovacchia, strangolata dal blocco sovietico. Unica forma di liberazione dalla miseria totalitaria, per lui era soltanto il gioco. «Praticare sport era diventato il nostro modo di aggregarci in una collettività, senza individualismi. Lo sport era forse l’unica salvezza», confida Zeman, che la sua prima ancora di salvezza la lanciò ai ragazzi di Cinisi, il paese di Peppino Impastato, il covo del boss mafioso Tano Badalamenti. Per la sua prima panchina a fine mese lo pagavano all’«americana, 50 dollari». Zeman incassa senza battere ciglio e impara a dribblare in fretta con finta indifferenza anche la mafia. L’unico capo per cui prova ammirazione è il grande capo indiano Brodmen, l’eroe silenzioso di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, il film preferito del suo amato connazionale Milos Forman. Ultima proiezione vista al cinema, «non ci vado più da quando hanno proibito il fumo», ammette emulando lo scrittore-nicotinadipendente Andrea Camilleri. Nel fumoso manicomio, a volte criminale, del pallone, ha sempre affrontato tutto e tutti con estremo coraggio, allenando i suoi calciatori a «balzelli e millini», ripetute sfiancanti sui gradoni dello Zaccheria e inculcando il comandamento tattico: «Si propone sempre il proprio gioco, non ci si adatta mai agli avversari».Un gioco di estremo offensivismo, quasi sempre molto rischioso, in cui il risultato delle sue squadre si colloca nel crinale tra l’apoteosi e la figuraccia. Per quest’ultima, secondo costume italico c’è sempre pronta la contestazione furente della Curva. Ma anche dinanzi agli ultrà più violenti, armati di spranghe e sassi, Zeman non si scompone e non si dà alla fuga vigliacca, ma anzi insegna: «Se io vado piano, posso vedere traiettoria di pietre e schivarle. Se corro, perdo di vista pietre». Per lui conta solo quello che accade in campo, tutto il resto è noia, a cominciare dallo show-business che è diventato il calcio. «Gli affari hanno regole diverse da quelle sportive: poca meritocrazia, molta brutalità. Però io dalla mia panchina continuo a veder correre persone. Non soldi», sfumacchia leggero mastro Zeman che scruta l’orizzonte e cerca di ritrovare un panorama unico: «Vorrei solo avere un campo davanti e dei ragazzi da allenare». Non ha mai smesso un istante di confrontarsi alla pari con le nuove generazioni, anche se quest’ultima a volte lo preoccupa: «Oggi i ragazzi stanno sempre più chiusi in casa, mummificati davanti a uno schermo a questo dannato Facebook. Ho la sensazione che non sappiano relazionarsi con il mondo esterno». Ecco allora che il calcio assume un ruolo fondamentale di comunicazione sociale.Al vacuo commercio di parole, antepone il suo silente codice etico con cui difendersi dai mistificatori e da quei “poteri forti” (vedi ex triade juventina) che più di una volta hanno provato a rendere di gesso la sua sfinge che si stagliava davanti alla “murena itterica” di Luciano Moggi. «Io sono ancora qui nel calcio, Moggi no, è radiato», ha smozzicato di recente, senza esultare, ma ricordando a tutti quelli che hanno provato a gettargli fango nel suo cammino, che «di me posso dire che ho allenato, ho divertito la gente, non ho rovinato le società e non sono mai stato sotto inchiesta».Una lezione per tutti, a cominciare da quei “piccoli Zeman” che crescono alla sua ombra, come il difensore del Pescara Simone Romagnoli, laureando in filosofia che si presenta così: «Ho una visione serenamente pessimistica dell’umanità, in cui la forza prevale spesso sulla ragione». Un frammento delle lezioni di Zeman, l’ultimo discepolo di Kafka, del quale forse ha preso a prestito questa massima: «Un credo è come una ghigliottina, altrettanto pesante, altrettanto leggero».