mercoledì 18 febbraio 2015
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Trent’anni fa di questi tempi si correva la Sei Giorni di Milano. L’ultima, prima della nevicata che ha demolito il tetto del Palasport e cancellato un appuntamento che attirava migliaia di spettatori e teneva in vita l’amore per il ciclismo su pista, nel quale l’Italia aveva sempre primeggiato. Negli anni ’90 è stato fatto qualche tentativo per rianimarla, senza successo. Ormai il filo era spezzato. E lì, sotto le macerie ricoperte di neve è rimasta anche la gloriosa tradizione della pista azzurra che, senza un palcoscenico per alimentare la passione e reclutare talenti, è andata lentamente spegnendosi. Ora, il ciclismo è cambiato. Nel terzo millennio a gennaio si corre già su strada, mentre i pistard continuano a girare nelle Sei Giorni in attesa dei Mondiali. E c’è anche qualcuno, come Elia Viviani, che per prepararsi alla kermesse iridata ha corso una gara a tappe a Dubai, vincendo anche una frazione. Il campionato del mondo su pista inizia oggi a Saint-Quentin-en-Yvelies, in Francia, con 14 azzurri (6 uomini e 8 ragazze) a contendersi i 19 titoli in palio. La Nazionale maschile è guidata dal ct Marco Villa, 46 anni appena compiuti e un passato da pistard prestato alla strada. Sul palcoscenico del ciclismo non è mai stato un primattore ma una spalla solida e affidabile per tanti capitani. E, soprattutto, per Silvio Martinello: in tante Sei Giorni e nelle rassegne iridate formavano la coppia azzurra nell’americana, con lui ha vinto un bronzo olimpico, a Sydney, e due titoli iridati. Ora Villa si è caricato sulle spalle un settore allo sfascio. Un compito ingrato il suo, ma da buon gregario si è rimboccato le maniche e ha iniziato a lavorare, in silenzio, senza sollevare polemiche o avanzare assurde pretese. Chi glielo ha fatto fare di accettare un ruolo così ingrato? «La passione. In pista ci ho trascorso una vita e ho avuto soddisfazioni indimenticabili, la medaglia olimpica e i due titoli iridati non si possono dimenticare. Poi, vorrei far passare il messaggio che correre in pista è bello e ci si può costruire una carriera».Noi italiani dobbiamo rassegnarci a vivere di ricordi? «Manca la mentalità, i corridori li abbiamo ma non si schiodano dall’attività su strada. E a niente serve l’esempio degli inglesi e degli australiani che riescono a sfornare grandi stradisti dopo che si sono fatti le ossa su pista. Bradley Wiggins su tutti: dopo aver collezionato titoli olimpici e iridati si è dedicato alla strada vincendo il Tour de France». Ma oggi sono pochi gli stradisti che si cimentano sul tondino. «È vero anche che dal programma olimpico hanno tolto alcune discipline compatibili con la strada, come la corsa a punti. Però, io faccio fatica a trovare un 24enne capace di correre l’americana se non l’ha fatta da ragazzino. Non ci si può improvvisare pistard. Da noi si punta troppo sulle corse su strada: già a 17 anni abbiamo corridori specializzati».Il record dell’ora è tornato di moda, può essere di aiuto?«Può essere un incentivo per i giovani vedere un po’ di risalto sui mass media per una prestazione su pista». Una volta si diceva che mancavano le strutture. Da qualche anno c’è il velodromo di Montichiari, ma nulla sembra cambiato.«Era una scusa, come tante altre. Oggi molti accampano il pretesto che il velodromo è lontano. Ai miei tempi con Martinello, Lombardi e altri, correvamo e vincevamo le Sei Giorni senza avere piste coperte per allenarci. Era ed è solo una questione di mentalità e di volontà».In Italia l’attività a un certo livello è limitata alla Sei Giorni estiva di Fiorenzuola.«Ci sono tante piste in cemento, scoperte. Come quella di Fiorenzuola, ma l’attività è ridotta a qualche sporadico appuntamento regionale. E adesso, con la crisi, è ancora più difficile organizzare le corse. Bisognerebbe fare un monumento a Santi che riesce ancora ad allestire la Sei Giorni delle Rose». Come è possibile che anche i Paesi Latinoamericani in pista vadano meglio di noi?«Le medaglie olimpiche fanno gola a tutti. Siamo noi a sentire poco lo spirito dei Giochi. In alcuni Paesi investono su queste attività e i risultati arrivano. E tra poco si farà sentire anche la Cina, già molto forte nel settore femminile: hanno deciso di investire anche nei maschi ingaggiando un tecnico francese che fino allo scorso anno era in Russia». A Londra l’Italia aveva un solo corridore… «Allo stato attuale ne avremmo due, Elia Viviani e Francesco Ceci, ma c’è tutta la prossima stagione per guadagnare punti e la lista potrebbe allungarsi. Purtroppo, il Cio ha ridotto le discipline olimpiche togliendo quelle più adatte agli stradisti, come l’americana e l’individuale a punti. Ora le specialità sono solo 5 e tutte tecniche».Le nostre speranze per questo Mondiale?«Viviani è campione europeo dell’omnium olimpico, può fare bene anche a livello mondiale. A Londra il podio era tutto europeo e questo lascia ben sperare. Noi, però, dobbiamo correre anche in funzione delle Olimpiadi per racimolare punti per la qualificazione. Sarà una gara nella gara».In Italia è in declino il cross, la pista e ora pure la strada. C’è una connessione?«Certo. Abbiamo puntato sempre più sulle corse su strada nelle quali si ottenevano grandi risultati. Ma il ciclismo non è più come quello di venti-trenta anni fa, ora c’è bisogno di programmare, di lavorare meglio sui giovani». Una soluzione da mettere subito in campo?«Dobbiamo credere nella pista come nella strada. Viviani che viene scelto dal team Sky deve fare riflettere: una grande squadra, a parità di condizioni, preferisce arruolare il corridore polivalente. I ragazzi e anche tanti tecnici giovanili dovrebbero capire che la pista non fa male, anzi, è esattamente l’opposto. Basta guardare l’esempio di tanti corridori come Mark Cavendish e Niki Terpstra, il trionfatore dell’ultima “Roubaix”. Entrambi vengono dalla pista e hanno appena conquistato, rispettivamente, il Dubai Tour e il Giro del Qatar, dopo aver vinto nelle Sei Giorni: l’inglese a Zurigo e l’olandese a Rotterdam». E nel settore femminile come andiamo?«Le donne sono messe meglio con la qualificazione olimpica. Bronzini, Frapporti e il quartetto non dovrebbero avere problemi a centrarla. Per il ct Dino Salvoldi è tutto più facile: le ragazze crescono con una mentalità diversa, vanno tranquillamente sia su strada che su pista».Da anni il ciclismo sembra diventato sinonimo di doping…«I tempi sono mutati. Ho a che fare con i giovani e vedo una generazione affrancata da questa piaga, che ha saputo cogliere il cambiamento. Sono molto attenti, sanno che i controlli sono ferrei ed è impossibile sfuggire. Così, sono più tranquilli: anche i colleghi devono correre puliti. Poi, il pazzo di turno lo si trova sempre, ma ormai è un’eccezione. Direi proprio che questa è una bella generazione di atleti».Diretta tv: Rai Sport1, ore 20
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