martedì 24 maggio 2016
​​"I, Daniel Blake" dell'ottantenne regista inglese è l'amaro e toccante affresco di una società neoliberista.
 Ken Loach dopo il trionfo: «Una voce contro il potere»
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«Un altro mondo è possibile, e necessario». Con queste parole l’ottantenne Ken Loach, il regista più vecchio di questo concorso, ha ritirato la Palma d’oro del 69° Festival di Cannes per il suo I, Daniel Blake, il racconto straziante dell’odissea di un uomo alle prese con la kafkiana burocrazia dell’assistenza di Stato e un amarissimo affresco della società neoliberista che in nome del profitto calpesta i diritti e la dignità dei più deboli. «Ritiro il premio senza dimenticare le storie vere delle persone che hanno ispirato questo film - ha aggiunto il regista, che torna a trionfare sulla Croisette a dieci anni da Il vento accarezza l’erba - ma il cinema ha la possibilità di rappresentare la voce dei cittadini contro il potere». In un’edizione che ha alternato ottimi film a solenni bidoni, la giuria presieduta da George Miller (e della quale faceva parte anche la nostra Valeria Golino) non ha avuto vita facile, come si deduce da certe dichiarazioni che riferiscono di confronti duri e di un verdetto non facile da raggiungere. Il premio a Loach, che ha fatto versare lacrime di commozione e rabbia a pubblico e critica fotografando la povertà nel mondo occidentale, era dunque piuttosto prevedibile e capace forse di mettere d’accordo i giurati divisi su altri titoli. Sorprendente invece il Grand Prix al regista più giovane in gara, Xavier Dolan, che con il suo doloroso Just la fin du monde aveva già conquistato il premio della Giuria Ecumenica, ma era stato piuttosto maltrattato dalla critica nei giorni scorsi. Dolan si prende dunque la sua rivincita ritirando il secondo premio del Festival con la storia di una turbolenta riunione familiare. «I miei personaggi, buoni e cattivi ha detto il regista - sono tutti feriti e vivono tra noi con paura. Ma nella vita si deve perseverare per essere amati e accettati. E io preferisco la follia delle passioni alla saggezza dell’indifferenza». Benissimo poi i due riconoscimenti a Le client dell’iraniano Ashgar Farhadi, che avrebbe meritato molto di più, ma che ha conquistato due premi importanti, quello per il miglior attore, Shahab Hosseini e quello per la straordinaria sceneggiatura scritta dallo stesso regista. Bene anche il premio alla regia per Cristian Mungiu e il suo Bacalaureat, affresco della Romania post Ceausescu tracciato attraverso gli occhi di un padre di famiglia chiamato a risolvere molti problemi. Peccato però che il talentuoso regista rumeno, autore di una delle opere più interessanti del concorso, abbia dovuto condividere il podio con Personal shopper di Olivier Assayas, uno dei bluff di cui parlavamo. Decisamente meno condivisibile il premio per la migliore attrice a Jaclyn Jose per il deludente Ma’Rosa di Brillante Mendoza, e quello della Giuria ad American Honey di Andrea Arnold, vuoto ritratto di una gioventù americana senza ideali. Sono invece rimasti a bocca asciutta, nonostante il consenso entusiasta dei festivalieri, il rischioso Elle di Paul Verhoeven, l’eccentrico Toni Erdmann della tedesca Maren Ade che era piaciuto a tanti, il rumeno Sieranevada di Cristi Puiu, l’erotico Madamoiselle di Park Chang Wook. Mentre nessuno si è lamentato dell’assenza nel palmarés di The last face, il malriuscito film di Sean Penn, e di The Neon Demon, stucchevole provocazione firmata dal danese Nicholas Winding Refn che ha fatto infuriare anche i più agguerriti cinefili.
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