Sara Battaglia, Terryana D’Onofrio e Michela Pezzetti: le ragazze della squadra femminile di kata, medaglia d'oro agli Europei di Karate a Novi Sad
Più che uno sport è una filosofia, in cui mente e corpo collaborano per conseguire un obiettivo. «Devi dare la cera con la mano destra e la devi togliere con la sinistra. Dai la cera, togli la cera». Quando nel 1984 nelle sale cinematografiche di mezzo mondo sbarcò il primo capitolo della tetralogia di Karate Kid, nessuno avrebbe immaginato che la disciplina al centro della pellicola diretta da John Avildsen sarebbe sbarcata ai Giochi olimpici. Eppure metaforicamente Per vincere domani, La storia continua, La sfida finale e Karate Kid 4 possono essere considerati il prologo all’ingresso del karate nella famiglia a cinque cerchi.
“Dai la cera, togli la cera” sono tecniche tipiche del Goju-ryu, uno dei principali stili del karate (letteralmente “mano vuota”) di Okinawa, l’arcipelago che ha dato i natali allo sport che non poteva assolutamente mancare nell’Olimpiade del Sol Levante. Nell’agenda a cinque cerchi confluiranno due specialità, il kumite, ossia il combattimento reale, e il kata, vale a dire il combattimento immaginario. Nel kumite i due rivali si sfidano sul tatami uno di fronte all’altro, nel kata il singolo karateka si esibisce davanti alla giuria simulando le forme tipiche del combattimento: parate, schivate e attacchi con braccia e gambe.
Non saranno in tanti a godersi il sogno olimpico, visto che in ciascuna delle otto gare – tre categorie di peso maschili e altrettante femminili nel kumite, il kata individuale per uomini e donne – gareggeranno solo dieci atleti. Ottanta quindi i fortunati che lotteranno strenuamente nel prossimo biennio per poter calcare il tatami del Budokan, impianto simbolo della specialità nel cuore della capitale nipponica.
Per i papabili azzurri il percorso di avvicinamento è scattato con gli Europei di Novi Sad, dove l’Italia ha calpestato il podio per dieci volte, conquistando due medaglie d’oro, tre d’argento e cinque di bronzo e piazzandosi terza nel medagliere alle spalle di Spagna e Turchia. Sul gradino più alto sono salite le ragazze del kata Sara Battaglia, Michela Pezzetti e Terryana D’Onofrio, nonché Michele Martina – già campione mondiale Under 21 – negli 84 chilogrammi del kumite. Titolo solo sfiorato per Angelo Crescenzo nei 60 kg, per Viviana Bottaro nel kata e per le ragazze del kumite Sara Cardin, Laura Pasqua, Silvia Semeraro e Clio Ferracuti. Infine terza piazza per la squadra maschile di kata formata da Alessandro Iodice, Gianluca Gallo e Giuseppe Panagia, per Mattia Busato nel kata individuale e per Luigi Busà (75 kg), Sara Cardin (55 kg) e Silvia Semeraro (68 kg) nel kumite.
Rispetto alla precedente edizione della rassegna continentale l’Italia ha acciuffato due podi in più. Tra i medagliati i più rappresentativi sono Cardin, Busà, Bottaro e Busato, di recente confluiti nel club olimpico. Sono loro l’apice di un movimento dai numeri crescenti. Nel 2016 l’anagrafe della Fijlkam – acronimo di Federazione italiana judo lotta karate e arti marziali – annoverava sotto la colonna del karate 1.117 società sportive e 46.297 atleti. Nel censimento del 2017 i club sono saliti a 1.158, mentre gli atleti hanno raggiunto la quota di 48.100. Insomma l’effetto olimpico ha illuminato uno sport finora nell’ombra, ma dai numeri importanti e nel quale l’Italia è stata sempre tra le nazioni top. Nel Vecchio continente gli azzurri lottano per la supremazia contro Spagna, Turchia e Francia. Nel mondo Giappone, Cina e Iran sono i Paesi extraeuropei ai vertici.
A frenare lo sviluppo del karate sono stati i litigi interni. Sì, perché a differenza del judo o della lotta all’interno del karate non c’è stata unità di intenti a livello di stili e di organizzazioni. Sono così proliferate tante sigle, ognuna col proprio regolamento e le proprie manifestazioni. Questo fino a che il Cio ha riconosciuto come unico interlocutore la Wkf, World Karate Federation. «Da allora con l’obiettivo olimpico sono cominciate le spinte all’unificazione. L’unico modo per crescere è lasciare le proprie identità», racconta Pierluigi Aschieri, direttore tecnico federale delle squadre nazionali, secondo il quale oltre ad essere uno sport il karate incarna una filosofia di vita basata su due forme di espressione, una cognitiva («Questo sport consente di migliorare l’autostima, potenziare la coordinazione fisica e velocizzare i processi decisionali»), l’altra spirituale: «La mente usa il corpo per realizzare i propri scopi. Inoltre il karate è uno sport di combattimento molto sicuro, dove il numero di infortuni è limitato».
Il karateka indossa una divisa bianca, il karategi (che molti sbagliando chiamano kimono, forse facendosi fuorviare dal titolo di un’altra pellicola dedicata al karate, Il ragazzo dal kimono d’oro), composto da un pantalone e una giacca chiusa da una cintura colorata. Nel kata ci si esibisce a mani e piedi nudi, mentre nel kumite le protezioni indossate sono mezzi guanti, paratibie e parapiedi. Una volta la massima aspirazione era la cintura nera, oggi il sogno si chiama oro olimpico.