mercoledì 18 maggio 2016
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CANNES Nel cinema di Pedro Almodóvar tornano le donne, tenere e materne, forti e determinate, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, ma pronte a ricucire ferite e riallacciare abbracci spezzati. Julieta, che il regista spagnolo ha co-sceneggiato con la scrittrice canadese premio Nobel Alice Munro a partire dai suoi racconti Fuga, Tra poco, Silenzio e che ha presentato ieri in concorso a Cannes, ci racconta di una giovane madre che qualche anno dopo la prematura morte dell’amatissimo marito viene abbandonata dalla figlia, svanita nel nulla dopo un ritiro spirituale che l’ha avvicinata alla religione cattolica. Per dodici an- ni Julieta (interpretata da Adriana Ugarte ed Emma Suarez) non sa più nulla di Antia. Ma un giorno l’incontro casuale di un’amica d’infanzia di Antia riaccende in Julieta la speranza di poterla rintracciare. Nel film, già ribattezzato Tutto su mia figlia, tornano tanti elementi almodóvariani – i colori accessi, gli anni Ottanta, la malattia, la morte, la figura della madre, il thriller, il melodramma, il dolore della perdita, il senso di colpa, i nodi del passato che vengono al pettine – ma il regista sembra orchestrarli senza cedere ai fiammeggianti eccessi di gioventù, con più rigore e controllo, in accordo con l’emotività trattenuta e le atmosfere sospese della Munro. Ed è forse questo il punto più debole di un film durante il quale aspettiamo qualcosa che non arriva mai, un segreto ancora più inimmaginabile, un mistero più intrigante. «So che qualcuno ha inventato il termine almodramma – dice il regista – ma questa volta ho cercato di fare un dramma il più sobrio possibile. Il racconto della Munro mi offriva una sequenza meravigliosa, ambientata in un vagone ferroviario, che è stata il motore della storia. Quello che amo nella sua scrittura è che quando arrivo alla fine di un suo racconto ne so di meno di quando ho cominciato». L’assenza intorno alla quale ruota il film di Almodóvar è il tema anche del film di Olivier Assayas, Personal Shopper, storia di lutti e fantasmi fischiatissima dai critici, e del più che convincente Fiore, diretto dal nostro Claudio Giovannesi, presentato alla Quinzaine, distribuito da Bim il 25 maggio e prodotto da Rai Cinema, che ieri ha annunciato con Beppe Caschetto l’avvio della scrittura del prossimo film di Marco Bellocchio dedicato a Tommaso Buscetta. Ambientato nell’unico carcere minorile in Italia che separa i ragazzi dalle ragazze, Fiore segue Daphne e Josh, entrambi dentro per piccole rapine, novelli Giulietta e Romeo avviliti dalla mancanza di amore, più che di libertà, ribelli per voglia di riscatto. Rabbia e dolcezza, speranza e delusione si avvicendano sui loro volti fino a un finale che fotografa lo stato d’animo degli adolescenti per i quali tutto è ancora possibile. «Il finale è stato il punto di partenza di un film – ha raccontato il regista – dove tutto è osservato dal loro punto di vita. Per gli adolescenti non esiste il futuro, ma solo il presente, e l’amore trionfa sulla legge». «Ho 20 anni – aggiunge Josciua Algeri – e ho trascorso due anni in carcere, dai 16 ai 18. Nella mia vita ho vissuto delle brutte esperienze, sono un figlio della strada, da cui spesso non nasce niente, e invece eccomi qua. Sto provando a trasformare la mia sfortuna in una risorsa e spero di essere un buon esempio per tanti ragazzi come me». «Mi sento come un fiore che è sbocciato – ha concluso Daphne Scoccia, che prima faceva la cameriera in un ristorante e ha molto in comune con il suo personaggio – e in nome della verità che volevamo raccontare ho imparato ad affrontare molti aspetti di me che mi spaventavano». © RIPRODUZIONE RISERVATA Un Almodóvar senza gli eccessi di gioventù porta sul grande schermo il dolore di una madre abbandonata dalla figlia. Nella pellicola di Giovannesi invece la storia di due ragazzi di strada in cerca di riscatto Adriana Ugarte e Pedro Almodóvar
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