Juary nella “danza della bandierina”, con la maglia dell’Inter stagione 1982-’83
«Sarà così... Juary, Juary». Sarà che nel calcio ci sono le bandiere e ogni club può vantare la sua. Ma Jorge dos Santos Filho, in arte Juary, classe 1959, rimarrà nella storia di cuoio come l’unica autentica “bandierina” danzante. Tutto ebbe inizio nell’anno mundial 1978, l’ala sgusciante brasilera trascina il suo Santos alla vittoria nel derby con il San Paolo. Finisce 3-1 con tripletta del piccolo e incontenibile attaccante che alla prima rete per la grande gioia si inventa la “danza della bandierina”. «Ero talmente felice che andai verso la bandierina del calcio d’angolo e ci girai intorno per tre volte...». Quando tre anni dopo sbarcò in Messico, alla Uag Guadalajara, quello era diventato il suo rito e Juary divenne noto in Sudamerica come «il bomber della bandierina». I filmati arrivarono anche in Italia e il padre patron dell’Avellino, Antonio Sibilia, su consiglio del tecnico brasiliano Luis Vinicio, prese di corsa il piccolo grande Juary. Da noi, il debutto con gol e danza attorno al drappo del corner lo fece a Catania, in Coppa Italia. È passato tanto tempo da allora, ma Juary è sempre lo stesso, un inguaribile romantico che vive e pensa a ritmo di samba come quel 45 giri Sarà così che incise nella sua parentesi italiana. Il nostro Paese gli ha dato tanto, ma alla fine ha ceduto al pressing della “saudade” ed è volato nuovamente a casa. «Ormai in Italia come allenatore non avevo più grandi opportunità (ultima panchina i dilettanti del Sestri Levante, cinque anni fa), il Santos è la mia casa e sono tornato qui per dare una mano al settore giovanile. Mi occupo degli under 14. Ci sono talenti? In Brasile ne nasce uno al giorno: i bambini giocano ancora a piedi nudi sulle spiagge o per la strada. Il problema è che tutti poi sognano un futuro alla Neymar, venire in Europa diventare ricchi e famosi, ma la maggior parte di loro non hanno la forza di coltivare fino in fondo quel sogno, e poi si perdono». È il destino di chi è nato e cresciuto in una delle maggiori fabbriche di “craque” del mondo. Quel Santos che ha dato i natali calcistici alla perla nera Pelè e con lui ai campioni del mondo - dal 1958 al ’70 - Zito, Pepe, Mengálvio, Coutinho, Gilmar, Mauro, Carlos Alberto, Joel Camargo, Clodoaldo e Edu. «Poi sono arrivati Ganso, Neymar, Robinho, Andrè... », sottolinea fiero Juary.
Ma sta dimenticando Gabriel Barbosa Almeida, alias Gabigol. Un craque che all’Inter ha avuto un avvio da flop.
«Normale, al Santos aveva una squadra che giocava per lui, all’Inter ha cambiato già due allenatori e fin dalla mia epoca gli inizi nella Serie A sono sempre stati difficili per tanti campioni. Alla dirigenza nerazzurra e agli interisti dico di avere pazienza e di aspettare, il vero Gabigol non l’hanno ancora visto. Si ricrederanno».
All’Inter lei ha giocato una sola stagione, 1982’83, sotto la guida di Rino Marchesi.
«Venivo da Avellino dove ero diventato un re e mi ritrovai in una squadra che aveva dieci nazionali ed ero stato preso come “ripiego” di Schachner del Cesena che aveva preferito andare al Torino. Vagavo per il campo di San Siro, conge-lato: fino a primavera giocai con i guanti per paura dei geloni alle mani. Non vedevo più la porta, feci solo due gol in tutto il campionato e - sorride - la domenica che segnai al Catanzaro c’era così tanta nebbia che ce ne accorgemmo soltanto io e l’arbitro».
Era comunque un’Inter non da scudetto, come questa di Pioli.
«La mia era un’Inter con uno spogliatoio pieno di campioni Zenga, Bergomi, Collovati, Beccalossi, Altobelli... però quell’anno arrivammo terzi dietro alla Roma che vinse lo scudetto e alla Juventus. Dopo 35 anni mi pare che non sia cambiato molto... - sorride - La Juve è la più forte di tutti, compatta, organizzata come squadra e come società. La Roma ci prova sempre a vincere il campionato ma poi si accontenta del 2° posto. E l’Inter adesso deve battere la concorrenza del Napoli per arrivare almeno terza, proprio come allora...».
Analisi perfetta dal suo buen retiro di Santos dove si occupa anche di calcio solidale.
«Quando sono libero dagli impegni con il club vado a vedere le partite dei ragazzi delle favelas. Porto palloni, maglie, consigli da padre, tutto quello che serve per strappare questi giovani dai pericoli della malavita che in Brasile è forte quanto in Italia».
Quando giocava ad Avellino infatti lei incontrò perfino il boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo...
«Su quella storia hanno costruito delle leggende. Sibilia un giorno mi portò in tribunale a trovare questo signore, che non sapevo neppure chi fosse. Gli consegnai un pacchetto e dentro c’era una medaglietta... Ma non gli ho mai donato la mia maglia e non ho mai incontrato Cutolo da solo come hanno scritto e detto per anni. Sibilia mi disse che era un mio tifoso. Poi ho saputo che al giornalista Luigi Necco che in tv raccontava le partite dell’Avellino dei camorristi avevano sparato alle gambe... Ma io non ho mai capito niente di certe storie, ero giovane e felice solo insieme ai miei compagni di squadra: il capitano Di Somma, Vignola, Piga, Ugolotti, Criscimanni Tacconi. Loro, con Vinicio, erano e rimangono la mia famiglia italiana».
Dopo l’Inter tornò a giocare di nuovo in provincia: Ascoli, Cremonese: pochi gol, poche danze intorno alla bandierina. Poi la rinascita al Porto.
«Mi davano per finito e invece molto prima di Mourinho con il Porto nel 1987 ho alzato al cielo la Coppa dei Campioni. Nella finale di Vienna contro il Bayern Monaco sono entrato nel secondo tempo quando perdevamo 1-0 e il sottoscritto ha segnato il gol del 2-1 contro quella squadra in cui giocavano due leggende nerazzurre, Matthäus e Rummenigge».
Da come la racconta, quella notte viennese è stata la più bella della sua vita...
«No, i giorni più belli sono quelli in cui sono nati i miei sei figli. Un pezzo della mia famiglia è ancora in Italia, Carolina si è sposata con Antonio, hanno due bambini e vivono a Salerno. Il calcio mi ha reso felice, mi ha salvato dalla povertà e mi ha insegnato ad affrontare la vita giornata dopo giornata, confidando sempre nella misericordia di Dio».