La protesta degli operai inglesi contro quelli italiani, cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, ha avuto un precedente clamoroso ma poco noto in Italia. Finita la guerra nell’aprile del 1945, i prigionieri italiani impegnati nell’agricoltura inglese vennero trattenuti per alcuni mesi. Scoppiarono allora le proteste degli operai che, licenziati dalle industrie di guerra, speravano di trovare lavoro come braccianti agricoli. Racconta la vicenda Richard Moore- Colyer, in uno studio comparso in un bel libro edito dalla « Agricultural History Review» . Il volume, che ha per titolo l’espressione con cui Churchill indicò l’agricoltura nell’ottobre del 1940, The front line of freedom ( « La prima linea della libertà » ), merita una traduzione italiana. I vari saggi mostrano come, dalla tragedia, è nata un’impresa che ha portato la campagna inglese a diventare la base solida di un prolungato benessere. Un esempio da studiare, in tempi di crisi economica. A quella impresa collaborarono oltre 50mila prigionieri italiani, mentre altri 66mila erano occupati nell’industria. Fu il ministro dell’agricoltura Hudson a sostenere per primo che i prigionieri potevano rimpiazzare la manodopera agricola passata all’industria di guerra. Quando lo stesso « esercito femminile delle campagne » ( le donne rimaste a lavorare i campi) si assottigliò a causa delle necessità belliche, i prigionieri divennero un’ancora di salvezza. La presenza di questi «lavoratori stranieri » , in verità, suscitava qualche scontento in una popolazione urbana soggetta a un rigido razionamento dei beni di consumo. Si diceva che gli italiani mangiavano troppo bene e che vestivano meglio dei « farmers » per i quali lavoravano. Ci si lamentava che nei cantieri di bonifica gli italiani ricevessero gli stivali senza la trafila burocratica di tutti gli altri. Ma i pochi farmers inquisiti per aver dato « premi di produzione » dichiararono che senza il contributo di quei lavoratori avrebbero perduto i raccolti. Il lavoro nei campi era volontario; dopo qualche tempo, anche i fascisti irriducibili accettarono di lavorare. Proibito, ovviamente, «fraternizzar » con i civili, ma molti potevano arrivare al lavoro in bicicletta e senza scorta. A maggio del 1943, oltre 4000 prigionieri erano autorizzati ad alloggiare nelle fattorie dove lavoravano. Si può immaginare il panico suscitato dall’armistizio dell’ 8 settembre ’ 43. Per la Convenzione di Ginevra, i prigionieri dovevano essere rimpatriati. Gli accordi col secondo governo Badoglio permisero la permanenza dei prigionieri, passati al rango di « co- operators » , con maggiore libertà di movimento e di svago. Alcuni giornali, come il Times, evocarono lo stereotipo dell’italiano pigro e lento, che preferisce cacciare i conigli selvatici ( comunque dannosi per l’agricoltura) anziché lavorare. Ma altri giornali scrivevano: «Non si potrebbe trovare in Inghilterra una folla di lavoratori così felici come i prigionieri italiani che raccolgono l’orzo. Cantano mentre lavorano. Molti sono lavoratori esperti. Purtroppo non sanno l’inglese» . Quelle lontane vicende vanno ricordate agli operai inglesi che hanno guidato la recente protesta. Ne possono trarre uno stimolo, forse, per affrontare la crisi con un nuovo « fronte europeo del lavoro » . Anche nel ricordo di quelle migliaia di italiani che, seppur prigionieri, sono stati dei combattenti sulla « prima linea della libertà» . Tra loro c’era mio padre. Mi lasciò che avevo tre mesi. Quando tornò, dopo aver fatto in Inghilterra la trebbiatura del ’45, avevo cinque anni.