Una volta era solo lei: la musica. Muto di parole e di colonna sonora, il cinema si animava col suono del pianoforte, più tardi quello di un’intera orchestra. Poi, col sonoro, tutto cambiò. Divenne terreno fertile per chi, usando il pentagramma, voleva cimentarsi col grande schermo. Ma, a parte rarissimi casi, chi scriveva per il cinema, per molti anni, se ne vergognò. Ora, scorrendo l’elenco dei 213 compositori italiani che sono stati catalogati nell’archivio della Bibliomediateca dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma, così da permettere a tutti di accedere a un patrimonio prezioso, si fanno appunto scoperte sorprendenti, lasciando il divertimento di associare nomi ai film. Ci sono assoluti sconosciuti e altri "insospettabili", come Willy Ferrero e Severino Gazzelloni, Lelio Luttazzi e Marinuzzi, Petrassi e Roman Vlad. «È importante il fatto che un’Accademia come quella di Santa Cecilia si sia ricordata del nostro lavoro dimostrando una certa elasticità – commenta Nicola Piovani, Oscar per la musica de
La vita è bella, pochissimi gli altri italiani a stringere tra le mani la statuetta, si ricordano Ennio Morricone alla carriera nel 2007 e Dario Marianelli per
Espiazione nel 2008 – perché molti di noi, almeno nei tempi passati, si nascondevano. Era un poco come per i registi della pubblicità. Oggi sono cambiate coordinate e giudizi e chi scrive per il cinema vive un’epoca nuova». Piovani è ottimista, soprattutto per i giovani. «Credo sia dovuto all’aspetto tecnologico del fare musica per il cinema. L’accesso all’accoppiata musica-immagine un tempo era difficilissimo, oggi si sperimenta subito con grande rapidità quanto una musica e una scena funzionino meglio di altre – aggiunge –. Si è modificato il modo di lavorare, sono lontani i tempi in cui Franco Ferrara dirigeva di notte per prendere il sincrono. Anche se il nostro rimane pur sempre un mestiere, non un’arte». Ribadisce il valore di una storia magnifica. «Che parte dal silenzio e arriva a Nino Rota, senza il quale non ci sarebbe il cinema di Fellini. Ma hanno valore anche le canzonette usate da Dino Risi, che si ingigantivano grazie al suo sapiente uso drammaturgico. Perché il cinema racchiude davvero tutte le lingue musicali del mondo – aggiunge l’artista –. Pensate a un film horror: sedici battute di Stockhausen funzionerebbero benissimo, più che in una sala di concerto. L’archivio oggi a disposizione, che raccoglie tutti democraticamente, è una grande fonte di studio. Si scoprono film che, pur decisamente invecchiati, hanno dentro una musica modernissima. Come quella che Morricone scrisse nel 1961 per
Il federale di Luciano Salce». Morricone: un faro. Ce ne sono altri che Piovani riconosce. «A parte la colonna sonora de
L’artista, che nel suo gioco sorridente e ironico è un grande esercizio di stile, a me piace molto il lavoro di Alexander Desplat o quello che fa Iglesias con Almodovar. Eppure, lasciatemelo confessare – dice Piovani –, io sono un grande amico personale di Ennio Morricone, ho imparato da lui la metà di quello che so fare e lo considero un artista che, a prescindere dall’età, fa ancora ricerca».Certo, anche i cinquant’anni di esperienza che hanno forgiato l’arte di Riz Ortolani, con decine e decine di titoli presenti nell’archivio, fanno riflettere. Il Maestro pesarese, però, è decisamente meno entusiasta. «Non voglio apparire come il solito criticone – confessa – ma negli anni ’60 e ’70 si scriveva meglio, oggi i compositori scrivono molto male. Non approfondiscono più, non fanno ricerca. Anche la tecnica è cambiata. I giovani pensano, scrivendo per il cinema, di non dover conoscere il contrappunto, l’intreccio, le cancellature, non sanno orchestrare e dirigere. Io – aggiunge – mi sento come uno che ha messo dentro questo mestiere tutta una vita, una sofferenza, una bellezza, un’amicizia. Che ha sempre cercato di cambiare stili, dal classico al rock al jazz. Non mi sono mai vergognato di essere un musicista di colonne sonore». Ortolani ricorda anche le figure dei registi con cui ha avuto il privilegio di lavorare. «Ne ho sempre avuti di grandissimi al fianco, che mi hanno dato la libertà di poter scrivere ciò che sentivo. Damiano Damiani, ad esempio. E Dino Risi: nessuno notò e capì la mia musica per i titoli di testa del
Sorpasso, un progressive jazz – che nel ’62 non si sapeva nemmeno cosa fosse – e l’orchestra impegnata in un lavoro giocato tutto sulle dissonanze e i vibrati, che anticipano la tragedia. Ma il punto di riferimento della mia carriera rimane Pupi Avati, col quale ho lavorato per venticinque film, fino all’ultima serie televisiva
Un matrimonio. Con lui, un’intesa perfetta».